In una fase caratterizzata dalla fortuna del "rottamatore", figura di innovatore che, in quanto giovane, si erge contro il potere di una gerontocrazia ritenuta antropologicamente incapace di pensare il futuro, può essere utile tornare a riflettere sul ruolo dei giovani nella politica novecentesca. L'occasione è offerta da questo volume, che esamina in maniera documentata l'intreccio tra l'ideologia della giovinezza e la prassi organizzativa della gioventù in età liberale. Prodotto dell'evoluzione demografica e della modernizzazione socio-culturale dell'Europa otto-novecentesca, l'irrompere dei giovani sulla scena della storia pose il problema del disciplinamento di una soggettività potenzialmente eversiva dell'ordine borghese. Nel quadro di una società civile fragile e segmentata, il processo di "nazionalizzazione" della gioventù italiana si realizzò, in maniera accidentata e con esiti incerti, all'interno di un articolato network associativo. I sodalizi giovanili della Dante Alighieri, del Touring Club Italiano, del Club Alpino italiano, della Lega navale, della Trento e Trieste, delle varie società ciclistiche e di tiro a segno si rivolsero a una ristretta élite giovanile borghese, pur essendo rigidamente diretti da adulti, con l'obiettivo di creare una continuità tra le generazioni all'insegna dei valori patriottici e risorgimentali. Vere e proprie "palestre di italianità", le associazioni studentesche educarono alla rispettabilità borghese; riprodussero un modello virile attraverso l'educazione militarista; perpetuarono l'egemonia di classe a dispetto della retorica sulla solidarietà generazionale formando le nuove élite dirigenti borghesi. Il quadro cambiò con la guerra di Libia, quando il patriottismo virò verso l'imperialismo bellicista. Con l'ideologizzazione della nazione a opera del nazionalismo, il mito della giovinezza si saldò con quello della palingenesi, trasformando i giovani in una "classe rivoluzionaria", votata alla contestazione dell'ordine esistente così come costruito dai padri. Perciò l'agitazione interventista e le manifestazioni postbelliche a sostegno dei "sacrosanti diritti" della nazione non furono una fiammata improvvisa, ma piuttosto l'esito di un lungo processo di formazione culturale realizzato dall'associazionismo giovanile negli anni precedenti, dal quale emersero i quadri di quei gruppi del radicalismo nazionale che confluirono, infine, nel fascismo. Occorre tuttavia ricordare che non tutta la gioventù fu sedotta dai miti nazionalistici (il rapporto gioventù-socialismo è solo evocato nel volume) e anche coloro che si riconoscevano nella nazione non necessariamente aderirono al fascismo. Tanto è vero che, per piegare la resistenza dell'associazionismo democratico e antifascista, e ottenere il controllo del mondo studentesco, raggiunto solo a metà degli anni venti, i fascisti dovettero impiegare la violenza squadristica. Dalla ricostruzione emerge con chiarezza che la retorica della giovinezza è stata spesso utilizzata per realizzare l'integrazione subalterna delle nuove generazioni. Ma i giovani hanno conquistato uno spazio per trasformare la realtà solo quando, senza chiedere il permesso, hanno messo in discussione il potere, se non i valori, dei padri. Sarebbe accaduto ancora alla generazione del Sessantotto. Luca La Rovere
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