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Descrizione


«Volete sapere una cosa? Viviamo ancora nel Medioevo». Semmai, da quelle strutture feudali, sembra scomparsa la Cavalleria. Il diario di un giovane medico destinato alla fama professionale, spinge ad una comparazione tra i laboratori americani e l'istituto di ricerca italiano.

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Dettagli

1993
7 giugno 1993
197 p.
9788838909221

Voce della critica

TOMATIS, RENZO, Il laboratorio

LANDò, LUCA, Ne ho ammazzati novecento
recensione di Alleva, En., L'Indice 1994, n. 9

Fioriscono i volumi sulla vita di laboratorio scritti da ricercatori italiani, libri che poi regolarmente finiscono con il divenire un'analisi retrospettiva sulle motivazioni profonde, sui rischi di alienazione, sui grandi sforzi intellettuali ed esistenziali, fino alle piccole meschinità della vita quotidiana di chi ha fatto la scelta di dedicarsi a tempo pieno alla scienza. Ed è un fenomeno interessante - editorialmente, ma anche sociologicamente - in un'Italia dove il mestiere di scienziato sta divenendo- o meglio è già divenuto - non più appannaggio di pochi eletti (quelli per intendersi che con stile di vita monacale e interesse maniacale perseguono ricerche a qualsiasi costo psicofisico) bensì una professione sempre più "qualunque". Un'attività oramai cui si dedica una massa di addetti ai lavori dalle origini più svariate: dalle legioni di insegnanti della scuola media e universitari, ai non pochi cultori di ricerche applicate del settore privato - una audience crescente, per esempio, nel settore delle biotecnologie. Oltre, ovviamente, ai non pochi lettori che vengono dal mondo della ricerca di base e applicata pubblica o para-pubblica, accresciutosi a dismisura nell'ultimo ventennio, anche se giustificatamente accusato di senilità, dato che vi abbondano i cinquanta-sessantenni ed è sempre più 'rara avis' un ricercatore trentenne con piena disponibilità sulla propria linea di ricerca.
La breve collezione di saggi del Landò è una rapida autobiografia sulla scelta d¡ un giovane neurobiologo italiano di completare la propria formazione all'estero, in un centro di elezione della scienza contemporanea, l'università californiana di Berkeley - mitico Eldorado per generazioni di giovani scienziati italiani in oltreoceanica ricerca di fortune scientifiche. Scritto in forma sufficientemente scorrevole, parte dagli animali totem utilizzati in una parte consistente delle ricerche di neurobiologia della trasmissione nervosa: il calamaro dall'assone gigante, la lumaca di mare Aplysia dai gangli nervosi grandi e dunque facilmente trafiggibili da un elettrodo, e soprattutto i gamberetti, con i quali (soprattutto uno, gamberetto di nome Charlie) l'autore-decapitatore - boia per scelta di mestiere - ha un rapporto affettivo difficile perché ambivalente. Lo cattura, trasporta, accudisce con lena, poi alla fine lo decapita per estrarne il tessuto nervoso per i suoi esperimenti.
In questo, e fin dal titolo, così apertamente venato di pentitismo, il volume desta interesse, scoprendo problematiche sottilmente bioetiche che bene testimoniano delle differenze tra la generazione di apprendisti scienziati dell'autore e quelle precedenti, che ben poco si curavano della sofferenza psicofisica del soggetto animale in esperimento. Ovviamente con le debite eccezioni, come il genetista scozzese di tradizione ghandiana J.B.S. Haldane ("Della misura giusta", Garzanti, 1987), uso a non eliminare i pochi animali dei suoi esperimenti e - per retaggio paterno - a utilizzare il proprio corpo come cavia per studiare gli effetti dei gas tossici.
Il libro racconta anche del fugace e non poco sessista amplesso notturno con Carla - l'esotica collaboratrice americana - come delle immancabili vacanze a Tahiti e in Messico; parla parecchio delle complesse tipologie esistenziali dei colleghi statunitensi e delle annoiate solitudini quando non degli aspetti apertamente negativi di chi affronta un'esperienza giovanile di lavoro negli Usa. Ma il rapporto più interessante (quello più sentito e per ciò meglio descritto) è quello con Dick, il "capo" californiano di Landò, un lavoratore indefesso - lui sospetta che legga, scriva, o almeno pensi di biologia anche "sulla tazza del cesso". Ma appare uno scontro essenzialmente di motivazioni, non di culture separate da un secolo di oceano, n‚ di generazioni: il problema dell'autore (e, forse, di alcuni potenziali lettori) è un neppure tanto sottaciuto desiderio di abbandonare la ricerca scientifica per dedicarsi ad altro. Lasciando a qualche altro pazzo scatenato il compito nient'affatto semplice di far procedere le conoscenze scientifiche dell'umanità, magari indirizzandosi verso un più comodo, e probabilmente meglio retribuito, mestiere di giornalista scientifico, cui Landò malcelatamente aspira.
Ma l'attrazione per il "vero scienziato" prorompe comunque nel testo: Dick, implacabile supervisore del lavoro californiano del Landò, e facilitato nella carriera dall'esser allievo e pupillo riconosciuto del premio Nobel Bernard Katz (scopritore degli elementi chimici responsabili della liberazione di neurotrasmettitori), è uno che caccia all'aspetto: attende, qual leone le gazzelle all'abbeverata, che una rivista prestigiosa pubblichi qualche dato sensazionale (o almeno apparentemente tale) per contestarlo, distruggerlo, ridicolizzando gli autori e i loro sforzi imperfetti, rifacendo le bucce alle metodologie degli esperimenti o a una scorretta presentazione dei dati per massacrare gli autori. Per poi però cader vittima - anche lui, almeno per una volta - di una coppia di scaltri ricercatori israeliani, gli Steinart, che, vittime poco partecipi dei suoi feroci attacchi metodologico-intellettuali, riescono a controbattere e alla fine persino a ridicolizzare pubblicamente lo stesso Dick con elegante e malevola maestria. E per di più giocando fuori casa, cioè in un seminario a Berkeley, lì dove Dick ha da anni il laboratorio: come dal cappello del mago esperto, e solo negli ultimi minuti della conferenza (quelli che precedono il liberatorio applauso finale) escono vecchi, ridicoli dati scientifici di Dick, grafici polverosi di dimenticatoio, il primo peccatuccio di gioventù che - fatalmente, ed è giusto che così sia nella scienza competitivamente sana - distruggono il distruttore, demoliscono le sue critiche proprio ridicolizzando l'austero (ma criticabile) censore.
Di bella fattura, un classico Einaudi del 1965, riedito quest'anno da Sellerio, è invece il volume di Renzo Tomatis, che di vita di laboratorio ha scritto spesso e bene (si veda il suo piacevole "Storia naturale del ricercatore", Garzanti, 1982, e i precedenti "La ricerca illimitata", 1971, e "Visto dall'interno", 1976). Tomatis ha diretto dal 1982 il centro internazionale di ricerca sul cancro di Lione, ma la sua storia di vita vissuta di laboratorio riguarda invece la sua esperienza giovanile, di italiano neofita che esce da un molto provinciale istituto biomedico del Norditalia per piombare nella produttiva atmosfera di un'istituzione scientifica di alto prestigio, a Chicago.
Il testo è una riuscita galleria di personaggi americani, italiani, e italoamericani. Si intenda per questi ultimi ricercatori italiani che da vari anni - a volte da lungo tempo - lavorano negli Usa, e che non di rado sono afflitti da un sottile "mal d'Italia", da una voglia a tratti irresistibile di rientrare in patria; e non è mai chiaro quanto siano attaccati, rimpiangendolo, a uno stile di vita piacevolmente europeo, o quanto invece desiderino patriotticamente rendere partecipe un laboratorio italiano della loro maturata esperienza all'estero. Il testo ha la forma di un diario; anche qui troneggia Spencer, il boss americano di Tomatis, figura di cui si riconoscono meriti fondamentali, quali "l'acutezza critica": e sembra un pistolero del Far West che "raramente colpisce male quando si concentra su un problema". Ma ha anche demeriti, come quello classico d'innamorarsi di una spettacolare tecnica di laboratorio, un procedimento pittoresco ma fine a se stesso, anziché porsi problemi da risolvere, appunto, grazie a una tecnica sofisticata - male da cui è tuttora afflitta non poca biomedicina contemporanea, statunitense soprattutto. Oppure quando "espone idee non sue, orecchiate qua e là, senza mordente".
Non manca il giapponese poco creativo, ancorato alle tecniche di microscopia elettronica (allora, d'avanguardia), la tecnica lituana, Ilde, col nipotino morente di leucemia, che parteggia per una scienza dotta, ma anche di dottori che curino qualcosa, una scienza insomma utile contro l'umana mortalità. C'è il ricercatore tedesco che forse ha combattuto con l'elmetto da nazista contro gli americani, e ora si ritrova a lavorare con loro e per loro, e un'immancabile parata di ricercatori inglesi, nessuno dei quali regge però il confronto con i locali.
Fra i racconti più riusciti, va menzionato il dialogo, fitto di travisamenti e incomprensioni - ma in fondo di radicata complicità - tra il padre di Tomatis e il figlio apprendista scienziato che si va "a fare una posizione" negli Usa: e al padre torinese proprio non piace che il figlio si autodefinisca emigrante, fa così meridionale con le valigie chiuse con lo spago. C'è l'ex impiegato dell'imperial regio governo, l'efficientissima, teutonica segretaria Greta e l'"ebreo polacco", innamorato della Napoli che lo ha ospitato per alcuni anni. Né manca una sottile, ma riuscita cornice di negri, stabularisti addetti alla cura dei topi (che a centinaia Tomatis sacrifica per le sue ricerche sulla cancerogenesi), a volte coadiuvati da immigrati messicani: quando, per esempio, puliscono le grandi vetrate delle finestre del laboratorio, quelle che danno luce e dunque favoriscono idee e illuminazioni. Il volume è quindi una testimonianza riuscita del mondo dell'immigrazione negli Usa del dopoguerra, immigrazione di teste illustri - soprattutto, la grande "fuga dei cervelli" italiani, soffocati da piccole vicende di locale corruzione carrieristica e da visibile, e nient'affatto risibile, spreco di malutilizzati fondi per la ricerca. Ma anche un effervescente 'melting pot' di etnie povere, d'immigrazione più tardiva e dunque allora, come in parte adesso, costretti ai lavori più umili ma non meno necessari per la produzione scientifica. Con l'immancabile razzismo della moglie del ricercatore occidentale, che metteva un telo sul divano dove siede la baby-sitter negra.
Nel libro c'è anche molta Italia scientifica, terreno dichiaratamente infido e "paludoso": il Professore che si fa portare manoscritti e riviste appena arrivate nello studio spazioso, e corredato di bagno personale, per lasciarli ammucchiare e non leggerseli. Ma è un insegnante onesto, in fondo, e un umanista colto (Tomatis lo assolve con bonomia, dopo averne però sagacemente distrutto parole e opere). Ci sono gli assistenti, stuolo di giovani e meno giovani, poveri e affamati di "lavoretti" per sopravvivere durante i primi anni della carriera: che poi non è affatto scientificamente tale perché tutto si risolve in un accademismo molto meschino, in infinite serie di autopsie, biopsie e pratiche di tribunale, in scritti che l'autore giudica insulsi senza dirlo mai troppo apertamente. C'è un senso di vuoto, di sconforto, di profonda disillusione, in questa scienza italiana della metà degli anni sessanta.
Anche se il Professore di quei tempi si metteva il camice bianco e se i rituali sono oggi meno ipocriti, resta la sostanziale diversità con la "scienza vera", ricerche che cioè conducano a risultati degni di nota internazionale, che nel libro-diario resta esclusivamente americana. Tomatis sa rendere appieno, col suo riuscito stile letterario, il confronto tra queste due culture, separate da un oceano di diversità. Differenze di stile di lavoro, di concretezza, di produttività, un 'gap' che è poi orribilmente simile, a guardarlo con occhio onestamente critico, anche a trent'anni di distanza. Ed è qui la riuscita operazione di Sellerio, quella di permettere la lettura di un classico della 'laboratory life', permettendo nel contempo un raffronto tra quei tempi di divario tecnico-scientifico, soprattutto, organizzazionale e amministrativo, e i nostri non poi così invidiabili tempi moderni. Come appare crudamente dalla bella appendice di Tomatis a questa riedizione ("Trent'anni dopo") non molto è cambiato da quegli anni, e gli sprechi di denari e di talenti come le analisi tanto trionfalistiche quanto disoneste non possono negare una sostanziale permanenza di stili diversi tra il mondo scientifico italiano e quello male in Usa (il Landò lo testimonia benissimo). Insomma il libro è bello, e resta pienamente attuale, anche decenni dopo la sua primigenia comparsa in libreria. Un libro che rese indesiderabile l'autore, che col suo sfortunato tentativo di partecipare a uno degli oggi vituperatissimi "concorsi a cattedra" italiani (l'appendice ne illustra la cronaca colorita) riafferma la sostanziale continuità di un passato triste con l'angusto presente della ricerca biomedica italiana.
Un testo che va infine annoverato tra i migliori classici internazionali del genere "vita di laboratorio" è "Consigli a un giovane scienziato", del premio Nobel Sir Peter Medawar, recentemente scomparso, e che nonostante fosse uno dei personaggi di maggior spicco scientifico di questo secolo è autore in Italia ancora poco noto (il libro è stato pubblicato da Boringhieri nel 1981, nella bella traduzione di Anna Calissano, Lit 16.000). Un libro allegro e intelligente, pieno di sagaci avventure che sono anche utili consigli per chi muova i primi passi in laboratorio. Stranamente passato inosservato in Italia è poi "A passion for science", di Lewis Wolpert e Alison Richards (Oxford Univesity Press, 1988), una serie di racconti-intervista a una dozzina di scienziati - opinion leaders nei vari settori: spiccano gli evoluzionisti Steve Jay Gould e John Maynard Smith, l'immancabile biologo molecolare Francis Crick, il genetista Welter Bodmer, il virologo Anthony Epstein, il neuropsicologo Richard Gregoy, il cosmologo Martin Rees, Christopher Zeeman.
Una volta la teologia e la morale religiosa si insegnavano con la lettura delle "pie e virtuose" vite dei santi: chissà se gli intimi racconti autobiografici dei numi tutelari del pensiero scientifico contemporaneo non contamineranno qualche animoso talento giovanile. Speriamo almeno che scoraggino chi ritiene che la passione e la conseguente dedizione totale alla scienza sia un optional per questo mestiere, che magari attira solo perché permette di viaggiare spesso all'estero: il riferimento è all'acre critica che nella sua vivace intervista Gould muove all'inutile "chiacchiericcio" professionale di questi nostri ultimi lustri di scienza praticata, ma anche a come egli abbia risolto brillantemente il problema di fare di professione il paleontologo, sfuggendo però all'apparentemente ineluttabile destino di andarsene per lande desolate a caccia di ossa: dato che al pari della paleontologia lo attiravano l'idea di avere una famiglia normale e di vivere nella comoda lussuria mediologica di una grande città del mondo occidentale.
Tomatis ricorda che "la ricerca non è un hobby, è un impegno totale". La scienza is not e job, it's and adventure, afferma con aperta bellicosità il nostro Carlo Rubbia in testa alla sua prefazione al libro di Landò, parodiando un manifesto pubblicitario per l'arruolamento dei marines statunitensi. La vera avventura, e purtroppo a fine non lieto, resta l'esistenza sprecata di chi ha confinato, magari per romantico e passeggero innamoramento giovanile, la propria vita dentro le quattro aride pareti di un laboratorio, compiutamente arredabili solo con oggetti da incantesimo quali curiosità, passione, diligente perseveranza e tanta, tanta onestà intellettuale.

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