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Leo Castelli. L'italiano che inventò l'arte in America
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Leo Castelli. L'italiano che inventò l'arte in America - Alan Jones - copertina
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Leo Castelli. L'italiano che inventò l'arte in America

Descrizione


"Che fine avremmo fatto se non ci fossero stati i mercanti d'arte?", si chiedeva un tempo Pablo Picasso. In pochi casi la domanda è così calzante come per Leo Castelli: il gallerista italiano che reinventò l'arte in America accanto a espressionisti astratti dell'Action Painting come Jackson Pollock e Willem De Kooning, a neodadaisti come Robert Rauschenberg e Jasper Johns, con protagonisti della Pop Art come Roy Lichtenstein e Andy Warhol, e artisti del calibro di Frank Stella e Cy Twombly. Dandy, poliglotta dalle mille sfaccettature, brillante e raffinato seduttore, Leo scrisse più di un importante capitolo della storia dell'arte del Novecento nelle sue gallerie newyorkesi: prima sulla Settantasettesima Strada Est, e poi al leggendario 420 di West Broadway. La storia comincia dalla sua città di origine, la Trieste di inizio secolo, per passare al rarefatto ambiente surrealista di Parigi, con i suoi vernissage a mezzanotte, in cui la femme fatale Leonor Fini si incontrava con i maîtres-à-penser André Breton e Marcel Duchamp. Arrivando alla New York degli anni Cinquanta, tra le icone pop e i loft degli artisti di SoHo, fino al clima arrivista e rampante degli anni Ottanta. La vita di Leo Castelli è il "viaggio incantato" verso l'essenza di ogni uomo: la sua creatività, la sua vocazione, la sua missione nel mondo. (Introduzione di Gillo Dorfles)
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Dettagli

2007
21 giugno 2007
416 p.
9788876151958

Voce della critica

Considerata nei motivi caratterizzanti, la biografia di Jones colpisce per il partito preso pro mercato (decisamente antifrancese: la figura di André Malraux è tratteggiata in modo ridicolo) e il petulante pathos messianico, per cui tutto, in particolare la vita di Castelli e i "movimenti" artistici supportati dalla galleria, acquistano dimensioni superlative, inoppugnabili. Educati da quasi tre decenni di pensiero post storico e transavanguardistico, in Italia non siamo soliti interpretare la storia recente dell'arte come un agone, il frenetico susseguirsi di generazioni specializzate e ipercompetitive, pronte a dare battaglia, a modificare archivi o agende ogni cinque anni: è senz'altro una nostra debolezza. Pure la ricostruzione che Jones dà della scena dell'arte newyorkese degli ultimi cinquanta anni è proprio questa, nella sua drammaticità e al tempo stesso nel suo brusco vigore. New Dada contro espressionisti astratti, minimal contro pop, concettuali contro tutti, transavanguardisti contro concettuali: l'eroica sequenza edipica attraversa l'intera narrazione. Castelli emerge come un mercante abile e signorile, giustamente descritto nelle motivazioni di stile e patrocinio culturale che impediscono di assimilarlo tout court a uno sbrigativo uomo d'affari. Si adopera per assicurare agli artisti una sicurezza economica e non esita a investire denaro nella produzione di opere poco commerciali. Avvia un sistema di franchising con gallerie minori negli Stati Uniti e altrove e promuove i propri artisti attraverso la produzione e distribuzione di stampe d'arte. Riconosce i compiti educativi e didattici della galleria, confrontandosi con il museo. Non siamo certi che il paragone proposto da Jones – Castelli come il grande Gatsby – sia del tutto calzante, ed è probabile che una corretta valutazione dell'attività del gallerista attenda ancora un interprete meno candido e arrendevole. Emergono tuttavia doti di lealtà e di correttezza professionale, soprattutto nei confronti di artisti americani. Una perplessità sui molti refusi e abbagli della traduzione: Le chef-d'oeuvre inconnu di Balzac diviene, in modo esilarante, Le chef-d'oeuvre d'un inconnu. Michele Dantini

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