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Curtius, Ernst Robert. , and Antonelli, Roberto. , Bologna, Corrado. , Candela, Mercurio. , Luzzatto, Anna. Letteratura europea e Medio Evo latino Scandicci La nuova Italia, 2006., La nuova Italia, 2006. 27628 810 Autore principale Curtius, Ernst Robert <1886-1956> Titolo Letteratura europea e Medio Evo latino / Ernst Robert Curtius ; a cura di Roberto Antonelli Pubblicazione Scandicci : La nuova Italia, rist. 2006 Descrizione fisica XXXIV, 727 p. ; 26 cm Collezione Classici ; 1 brossura Ottimo, foxing al taglio superiore, timbro editoriale NB Questo libro, in quanto usato, potrebbe presentare segni di precedenti proprietari, quali sottolineature e scritte a matita o penna oppure timbri di appartenenza, non indicate nella scheda, come pure lievi abrasioni, piccoli strappi, piegature, incurvamenti e foxing, tipici dei libri usati.
recensione di Boitani, P., L'Indice 1993, n. 2
(recensione pubblicata per l'edizione del 1992)
I leoni non vivono più in Europa da epoche immemorabili. Eppure Pietro da Pisa, poeta della corte di Carlo Magno, in un'epistola metrica in latino descrive l'ora meridiana, durante la quale il pastore stanco si distende all'ombra, mentre "il sonno coglie gli uomini ed i fulvi leoni". "Qui - commenta Ernst Robert Curtius con sottile ironia, citando l'episodio - uno storico del sentimento della natura del Medio Evo si stupisce di 'questa assurda citazione del leone'". E aggiunge: "È appunto perché, in questo caso, il 'sentimento della natura' - concetto, del resto, per nulla chiaro - non c'entra niente". E allora da dove vengono i leoni di Pietro da Pisa? Ma dalla tradizione, s'intende! E più specificamente, essi sono un luogo comune della "tecnica letteraria". Il fatto è che nella poesia romana compaiono spesso dei leoni. "I "fulvi leones" risalgono ad Ovidio" ("Eroidi", 10, 85). E da lì, con sonno decisamente inquieto e per le vie tortuose del medioevo latino, vanno a ruggire in tutta l'Europa, particolarmente quella settentrionale. Ecco infatti Alcuino di York, trapiantato a maestro della scuola carolingia, augurare ad un pellegrino, in forma poetica, che n‚ leoni n‚ tigri abbiano ad assalirlo. E poi Adalberone di Laon lamentare che, con le incursioni dei Saraceni, le reliquie dei santi siano divenute preda degli uccelli e dei leoni. Anche i pastori inglesi, come testimonia Beda, sono messi in guardia contro i leoni. Perfino Sigfrido abbatte un leone: uso del gergo dei cacciatori da parte di un poeta entusiasta per le imprese eroiche dei Nibelunghi? "C'è da dubitarne - risponde Curtius. - Si tratterà piuttosto di stilizzazione epica, derivata dai modelli classici e biblici". L'epica francese brulica di leoni: "un leone, che era stato mandato in omaggio da Roma ad un re, viene definito 'un lion d'antiquité'". "Quanto pertinente ci sembra tale espressione!", esclama Curtius con gusto. E, concludendo il breve paragrafo con l'affermare che "gli animali esotici elencati hanno bensì... provenienza meridionale, ma non vengono dai giardini e dai serragli: derivano invece dalla poesia antica e dalla retorica" e che "le immagini relative al paesaggio della poesia medievale debbono essere intese nel quadro di una solida tradizione letteraria", si chiede: "fino a quando fu operante questa tradizione?" Risposta: "nello shakespeariano bosco delle Ardenne ("As You Like It") si trovano ancora palme, ulivi, leoni".
Ho voluto citare questo episodio da una pagina qualsiasi di "Letteratura europea e Medio Evo latino" perché essa è in certo modo esemplare della qualità e del metodo di un'opera che, classica da molto tempo in tutto il mondo, viene ora finalmente presentata in edizione italiana (impeccabile e non costosa, dotata di indici esemplari della traduzione di tutti i brani citati) a più di quarant'anni dalla sua prima pubblicazione. Un'erudizione sterminata regna nel passo che abbiamo letto, frutto di letture e ricerche decennali. Un'attenzione infinita e curiosa al dettaglio ne governa ogni singola articolazione. Ambedue, tuttavia, sono ferreamente regolate dall'idea - l'idea che la tradizione e la retorica determinano lo sviluppo delle immagini poetiche - e dalla capacità di generalizzare, sorvolando i secoli come se fossero un unico istante presente alla memoria di un Dio filologo.
Soltanto il lungo studio e il grande amore con cui Dante aveva "cercato" il volume di Virgilio potevano sorreggere uno sguardo del genere (n‚ è un caso che proprio l'incontro di Dante con l'ombra fioca del poeta latino apra e chiuda il libro di Curtius). Quell'amore è ancora oggi (specialmente oggi) commovente. Proprio durante gli anni che più hanno reso la civiltà europea lorda di sangue, il tedesco alsaziano Erost Robert Curtius - filologo romanzo, francesista, critico militante, professore all'università di Bonn - investiva tutto il suo patrimonio di studio nella fede europea. Contro la barbarie contemporanea si ergeva per lui il baluardo di un'Europa sostanzialmente figlia di Roma, una "Romània" ideale estesa nello spazio dalla Spagna all'Inghilterra, dalla Francia alla Germania e all'Italia, e nel tempo dalla Roma antica fino al Settecento e oltre. Al centro di questa Romània, l'età già definita più "oscura" e meramente "di mezzo" il medioevo: l'epoca che in realtà dà in lingua latina, forma e senso, voce e sostanza, all'Europa, che ne costituisce il perno di continuità legandola da una parte all'antichità classica e preparandola dall'altra alla modernità. Così infatti, con i due straordinari capitoli intitolati "Letteratura europea" e "Medio Evo latino", si apre il libro di Curtius: e così si conclude, con un capitolo dedicato a Dante - il "classico" che esorcizza i cosiddetti "dieci secoli muti" trasformando il mondo storico medievale in lingua moderna - e un epilogo che celebra sobriamente il tessuto della continuità e della memoria, con profonda coscienza delle lacerazioni che lo strappano e dell'oblio che lo minaccia e pur gli è necessario. In mezzo, il gran corpo dell'indagine metodica, la sequenza di esplorazioni storico-culturali e morfologiche, i sondaggi e i cataloghi topologici, la discussione delle categorie: insomma i prolegomeni ad ogni studio della letteratura (europea) che voglia presentarsi come scienza, il "susseguirsi dei capitoli... disposti in modo che ne consegua un graduale ed uniforme moto ascendente, a spirale".
Il cammino inizia con la ricostruzione dell'edificio che alberga tutta la "letteratura" medievale, quello dell'istruzione. Sapere "cosa" e "come" si studiava nel medioevo è essenziale per poter penetrare a fondo la mentalità del letterato e del poeta dell'epoca: ecco dunque la concezione delle 'artes', il posto fondamentale occupato in esse dalla grammatica, i canoni di autori letti nelle scuole. Sovrana, regna la retorica, il "sistema" di figure e di regole che assicura la sopravvivenza della memoria e organizza la letteratura. All'interno di essa, la "topica" e la "metaforica", i campi che hanno reso celebre "Letteratura europea e Medio Evo latino": l'individuazione cioè , rivoluzionaria rispetto alle "storie letterarie" tradizionali, di quella che Roberto Antonelli, nel suo sottile, profondo, esauriente saggio introduttivo, chiama la fenomenologia letteraria. Eccoli finalmente dispiegati davanti a noi, i 'loci communes', i 'topoi', le metafore che fanno da mattoni strutturanti della composizione poetica: la consolazione, la falsa modestia, il mondo alla rovescia, le coppie di giovane e vecchio e di vecchia e fanciulla, i modi dell'esordio e della conclusione; le metafore nautiche, alimentari, corporali teatrali; l'inesprimibile, il "sopravanzamento", l'elogio dei contemporanei. Il poeta medievale trasforma l'invocazione alla natura della letteratura classica? Ebbene, Curtius si lancerà in una pionieristica esplorazione della "Dea Natura" per spiegare perché, come, con quali risultati: da Ovidio a Claudiano, da Bernardo Silvestre ad Alano di Lilla, fino al "Roman de la Rose", la "potenza cosmica" alita, anima del mondo, nell'ispirazione poetica. Ad essa corrisponderà, sul piano dove la poesia è intessuta di retorica ed imbevuta di tradizione, il '"paesaggio ideale" ereditato dai classici: la flora e la fauna esotiche (i fulvi leoni di Pietro da Pisa), il boschetto, il celeberrimo 'locus amoenus' di piante, fiori e rivi che è ombra del paradiso terrestre.
Un continuo intersecarsi, dunque, di "costanti formali" e di sentieri diacronici percorsi empiricamente nella grande "ellisse" - come Curtius stesso definiva la struttura del suo lavoro - di "Letteratura europea". Nella seconda metà del libro ad esempio, la poesia incontra la filosofia e la teologia, sue perenni avversarie. Ebbene, il cammino che Curtius intraprende per ricostruire questa che sorprendentemente (nel 1948, si tenga a mente) diviene identificazione, ha inizio con l'allegoresi dei poemi omerici, passa per Filone, Macrobio, Giovanni di Salisbury, Erasmo, Winckelmann; riprende con i filosofi tardo-pagani, attraversa il medioevo cristiano, Dante, Giovanni del Virgilio, Petrarca e Boccaccio, per giungere infine da una parte a Leopardi ("la scienza del bello scrivere è una filosofia... e tiene a tutti i rami della sapienza") e dall'altra a Maritain e Maurras ("La Poesia è Teologia... la poesia è Ontologia").
Allora, precedute da un capitolo che, dedicato alle divinità della poesia, le Muse, fa da 'pendant' a quello sulla Dea Natura, si stagliano infine le due categorie fenomeniche della "Classicità" e del "Manierismo". "Classico" viene usato per la prima volta da Aulo Gellio per connotare lo stile di uno scrittore "di classe" opposto ad uno "proletario". La strada che esso deve percorrere per giungere all'accezione odierna è parallela a quella che, dall'antichità al medioevo, disegna l'opposizione Antichi-Moderni, ed è costruita sul formarsi successivo dei "canoni" biblico e letterario dai primi secoli cristiani alla modernità. Frutto dunque di una grandiosa e cangiante opera di canonizzazione (sul problema della quale, come su tanti altri, la meditazione di Curtius anticipa discussioni ancora vive oggi), la "classicità" non deve cristallizzarsi in freddi ed immutabili monumenti marmorei, ma piuttosto essere purificata dal "mistificato e mistificante umanesimo da liceo" e rimanere aperta agli "spiriti liberi". Il manierismo, per contro, è una costante della letteratura, perché il suo germe è "nascosto nel seno stesso della retorica" e le sue forme conducono ancora una volta alle figure di quella, ai giochi di parole, agli artifici metrici, alle metafore incubate nel medioevo latino ed esplose nel barocco.
Ben venticinque excursus ampliano l'indagine di "Letteratura europea e Medio Evo latino", lasciandola potenzialmente aperta all'infinito: da una sezione sulle formule di devozione e umiltà, a due sulla scienza letteraria dalla tarda antichità al medioevo, alla "scimmia come metafora", e così via. Il libro di Curtius, spesso definito una summa, è insieme qualcosa di più moderno (perché una summa è conchiusa) e di più antico: è il volume che, legato con amore, contiene le sostanze, gli accidenti e i loro costumi quali si squadernano per l'universo letterario europeo. Come il titolo di uno dei suoi ultimi capitoli, è un Libro-simbolo. Dell'Europa, appunto, e della sua letteratura.
recensione di Meneghetti, M.L., L'Indice 1993, n. 2
"What do we talk about when we talk about tradition?" La domanda - parafrasi del felice titolo "metafisico" di un felice volume di racconti di Raymond Carver - può sorgere spontanea a chi ha ora finalmente tra le mani l'accurata traduzione italiana di "Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter" di Ernst Robert Curtius, ben introdotta da Roberto Antonelli. Un libro, uscito in prima edizione a Berna nel 1948 (ma frutto di ricerche protrattesi per almeno una quindicina d'anni), che deve senz'altro essere annoverato fra quelli che più hanno contribuito al salto di qualità fra una "vecchia" filologia romanza ancora fortemente legata - nel bene e nel male - al metodo storico, e una "nuova" filologia romanza che tende piuttosto a caratterizzarsi in senso formalistico e tipologico-culturale.
È chiaro infatti che un saggio esplicitamente consacrato ai rapporti che in qualche modo legano la cultura latina - pur tarda, quando non medievale - alle diverse letterature europee (fino a Shakespeare, Calder¢n, Diderot, Goethe) presuppone che il suo autore abbia fatto, o comunque intenda fare i conti con un "divenire" nel cui alveo ogni esperienza letteraria appare legata alle precedenti da un rapporto di causalità. Eppure nulla è più sfuggente e contraddittorio dell'idea di tradizione che sembra alla base delle pagine di Curtius, in particolare nei luoghi metodologicamente impegnati costituiti dal capitolo introduttivo e dall'epilogo del volume.
A un primo livello, i legami fra passato e presente sono individuati dallo studioso tedesco, in questo allineato con la migliore ricerca tardo-ottocentesca (si pensi anche soltanto all'esemplare indagine di Pio Rajna - sull'"Orlando furioso"), sotto le specie del rapporto fra un determinato autore - o testo - e le sue fonti: "...la letteratura del passato è sempre in grado di offrire un contributo a quella del presente. Ed ecco Omero in Virgilio, Virgilio in Dante, Plutarco e Seneca in Shakespeare. Shakespeare nel goethiano "Götz von Berlichingen*, Euripide nell'"Ifigenia" di Racine e in quella di Goethe..." (p. 23); "Fili che si intrecciano, personaggi e motivi che ricompaiono in diversi contesti, rispecchiano la concatenazione dei rapporti storici" (p. 422).
Subito però il concetto perde quanto poteva avere di meccanica rigidezza, grazie alla precisazione che il recupero del passato "è nello stesso tempo accettazione e trasformazione", e che "quest'ultima può assumere aspetti molto diversi: può significare impoverimento, imbarbarimento, contrazione, travisamento, ma può essere, anche..., trascrizione scolastica, imitazione zelante di modelli formali, appropriazione di concetti culturali, entusiastica identificazione sentimentale" (p. 27).
Fin qui, comunque, si resta all'interno di un'idea dell'evoluzione culturale di tipo sostanzialmente storicistico - anche se deprivata di qualsiasi prospettiva teleologica. Ma proprio dai lavori di Ernst Troeltsch, massimo teorico dello storicismo (e addirittura inventore del termine) citato a varie riprese nel capitolo iniziale di "Letteratura europea", Curtius ricava una suggestione che lo porta a spostare di parecchio il proprio punto di vista: mondo antico e mondo moderno rappresentano le due facce di una stessa medaglia, nel senso che, secondo Troeltsch, la cultura europea nasce dalla "fusione totale, ed insieme cosciente" con la cultura dell'antichità (p. 27). La convinzione che il "presente atemporale" sia la caratteristica specifica del fatto letterario finisce invero per diventare la tesi "forte" di tutto il volume di Curtius: forte anche perché in grado di giustificare in senso appunto storico-filosofico la teoria psicologico-analitica junghiana degli archetipi verso cui lo studioso, al pari di molti altri suoi colleghi dei primi decenni di questo secolo, sembra esser stato fortemente attratto.
La duplice dedica - a Gustav Gröber e ad Aby Warburg - di cui si fregia "Letteratura europea e Medio Evo latino" sta proprio a indicare simbolicamente il doppio valore, tanto semantico quanto ideologico, che il termine "tradizione" assume in Curtius: "favente" Warburg, la tradizione culturale europea si rivela come permanenza atemporale di un numero, tendenzialmente finito, di "espedienti espressivi" - espedienti espressivi che per Curtius sono in primo luogo, anche se non esclusivamente, i 'topoi' (dal 'puer senex' alla dea Natura, dal mondo come libro al 'locus amoenus'), mentre per il geniale storico dell'arte erano le cosiddette 'Pathosformeln' della scultura antica -; ma sotto l'egida di Gröber, il maestro di filologia romanza degli anni di Strasburgo, ciascuno di questi 'topoi' disvela il cammino compiuto, spesso per secoli, per il tramite di una catena ininterrotta di testi: una catena che è imprescindibile ricostruire diacronicamente nella sua interezza e autenticità "filologica".
Mi preme però tornare a sottolineare che il puntello metodologico su cui si regge "Letteratura europea" è proprio l'idea che la cultura sia una sorta di repertorio finito di formule e motivi: repertorio finito, come lo sono i fonemi di una determinata lingua, o le figure della retorica classica. Questa concezione sottintende la possibilità di descrivere, ordinare e classificare, un po' alla Linneo, i costituenti del repertorio. E non è invero un caso che la metafora biologica attragga sensibilmente Curtius: il suo libro, annuncia nella prefazione alla seconda edizione del 1954, esaminerà "i fenomeni ricorrenti o costanti della biologia letteraria..."; in una lettera del 1922 a Carl Schmitt, relativa a un'indagine di quest'ultimo sulla 'forma mentis' romantica, già insisteva che: "...si dovrebbero raccogliere e classificare morfologicamente, in maniera sistematica, tutte le forme in cui si manifesta quel modo di pensare nell'intera storia dello spirito" (il passo è opportunamente citato nell'introduzione di Antonelli).
Si direbbe quasi che il sostanziale superamento del paradigma critico storico-idealistico, attuato da Curtius in una prospettiva tipologica, se non già strutturalistica, abbia dovuto prendere le mosse da un recupero più o meno esplicito - o forse nemmeno del tutto cosciente - di quella sistematica descrittiva che aveva costituito la grande forza della ricerca dell'età moderna. E non è un caso che dietro un altro importante - anche se diverso per mole, trattazione e finalità - prodotto della scuola di Curtius della fine degli anni quaranta, gli "Elemente der literarischen Rhetorik" di Heinrich Lausberg, intesi a classificare, già in senso generativo, l'insieme dei costituenti della 'langue' retorica, si possa a mio parere scorgere l'ombra delle proto-ottocentesche "Figures du discours" di Pierre Fontanier, il "Linné de la rhérotique" riproposto non molto tempo fa all'attenzione dei ricercatori da Gérard Genette.
Viene a questo punto da chiedersi perché comunque Curtius abbia individuato proprio nella cultura del medioevo latino (di un medioevo che per lui inizia nel IV secolo, in una temperie ancora fortemente impregnata di classicità) il compiuto "dizionario" delle formule e dei 'topoi' di cui tutta la cultura europea medievale e moderna farà poi uso. Si è accennato a varie riprese alla forte componente aristocratico-reazionaria della sua ideologia (una componente aristocratico-reazionaria che, in pieno 1947, gli consentirà di citare senza il minimo rossore, e anzi con netto compiacimento, quanto nel 1926 aveva scritto Max Scheler: "La democrazia che oggi impera e che viene estesa alle donne e ai giovanetti non è amica, bensì piuttosto nemica della ragione e della scienza" ["Letteratura europea", p. 11, nota 1]); si è accennato anche al significativo, benché fuggevole, incontro romano del 1929 con Aby Warburg, studioso delle permanenze classiche nell'arte occidentale.
È però forse importante sottolineare che la valorizzazione della componente latina della letteratura medievale risulta anche essere uno dei punti di forza della filologia romanza degli anni intorno al secondo-terzo decennio del nostro secolo: per non citare altro, al 1913 risale lo studio di Edmond Faral sulle fonti latine del romanzo cortese; al 1927 quello di Maurice Delbouille sui rapporti fra il genere dell''invitatio amice' e la pastorella romanza; al 1929 la monumentale indagine, ancora di Faral, sulle origini clericali della leggenda arturiana. Sappiamo che questa costellazione di ricerche rappresenta una reazione netta - anche se talora forse lievemente 'poussée' - al "culto" delle supposte radici nazionali e popolari praticato fino a quel momento dagli studiosi di letterature romanze delle origini; ma pure in un contesto di più ampia storia della cultura e delle idee, ove non incombevano precise ragioni polemiche, il nuovo punto di vista si impone con decisione: si pensi al capolavoro di Charles H. Haskins ("The Renaissance of the 12th Century"), uscito a Cambridge, Mass., nel 1927, in cui si delinea compiutamente il fondamentale ruolo di cerniera svolto dalla latinità del XII secolo fra la tradizione classica e la nascente cultura volgare dell'Occidente.
Non è perciò da considerare casuale il fatto che Haskins appaia spesso citato, benché per questioni relativamente marginali, in "Letteratura europea": anche se gli strumenti sono diversi, la linea dimostrativa del volume dello studioso tedesco si rivela molto prossima a quella dell'americano. C'è in più nell'alsaziano C£rtius, convinto che solo un recupero della grande unità culturale europea potrà evitare per sempre le tragedie derivate dall'imposizione - o dall'enfatizzazione - di improvvide, quando non ingiuste frontiere, quella tensione emotiva che ce lo rende ancor oggi vicino e consonante.
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