La Lettera a Cristina di Lorena, considerata il manifesto epistemologico della nuova scienza, il testo in cui Galileo formula l'inequivocabile distinzione fra Sacre Scritture che insegnano "come si vadia al cielo" e scienza, il cui compito invece è di insegnare "come vadia il cielo", non ebbe subito un'edizione italiana. Dovette aspettare un secolo per giungere alle stampe, solo nel 1710, a Firenze, ma conobbe invece, ancora in vita lo scienziato, un'edizione bilingue, italiana e latina, a Parigi nel 1636. La volle e curò Elia Diodati, discendente della nota famiglia protestante lucchese emigrata a Ginevra, divenuto amico carissimo di Galileo e definito recentemente come "l'agent scientifique de Galilée en France" (Garcia). La lettera ebbe poi altre edizioni, a Milano nel 1811, quella storica del Favaro nel 1890 per l'Edizione Nazionale, le sue ristampe, infine cinque edizioni solo nell'ultimo decennio, segno dell'interesse che riveste oggi non solo per la conoscenza di Galileo, ma soprattutto per la ricostruzione della storia delle idee, della scienza e della religione nella prima età moderna. Scritta nella primavera del 1615 per difendersi dalle accuse mossegli dai domenicani fiorentini fin dal 1613 e approdate in una denuncia al tribunale del Sant'Uffizio, la Lettera fu tenuta manoscritta. Viene abitualmente considerata (con quella al Castelli del dicembre 1613 e quelle al Dini del marzo e del maggio 1615) tra le cosiddette teologiche o copernicane, ovvero quelle lettere (affidate tutte a una circolazione manoscritta) in cui Galileo delinea il proprio punto di vista circa l'esegesi biblica e l'ambito scientifico. Sacra Scrittura e natura, egli afferma, scaturiscono entrambi dal Verbo divino: la prima, però, si adatta alla limitata comprensione degli umani, la seconda invece è perfetta esecutrice, nelle sue leggi, dei voleri divini. Dunque si deve attuare una netta separazione tra il campo della fede e quello della ricerca naturale: quando l'umano discorso riesce con i sensi e il ragionamento a conseguire delle verità, può addirittura contribuire all'interpretazione dei passi biblici controversi. Diversamente dalle altre lettere copernicane, che sono brevi, la Lettera a Cristina di Lorena ha un'estensione notevole, quasi un trattato, in cui Galileo difende con l'apporto di molte autorità patristiche (sant'Agostino soprattutto, ma anche san Girolamo, Dionigi l'Areopagita, san Tommaso d'Aquino) la congruenza fra Sacre Scritture e cosmologia copernicana. E particolare è anche il destinatario, non più religiosi o intellettuali attenti alle novità, ma la massima autorità di corte, la duchessa madre, protettrice di Galileo e animatrice della vita culturale fiorentina, e per questo prima autorità laica a stimolare lo scienziato a pronunciarsi sulla questione di scienza e fede. Era stata infatti Cristina a interrogare il Castelli nel dicembre 1613, in occasione di un pranzo di corte, sulla congruenza fra Bibbia e nuove scoperte. Ma della stampa Cristina non poté gloriarsi, messa al bando ed esiliata da Ferdinando II, morì in quello stesso 1636 in cui lo scritto a lei indirizzato la immortalava nella storia della scienza. La Lettera, dallo stile magniloquente, come si addiceva alla destinataria, "Magna Dux Hetruriae", densa di metafore, dovette avere al momento scarsa circolazione. Dopo alcune segnalazioni al Castelli e al Dini in fase di elaborazione, il carteggio galileiano non ne parla più fino al 1632, quando Galileo sta per varare il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, con cui la Lettera condividerà anche le sorti. Infatti è in occasione della traduzione del trattato che si profila il progetto di pubblicarne insieme la versione. Ma le due opere usciranno separate, sebbene ambedue dagli Elzevier, a cura di Matthias Bernegger l'uno nel 1635, l'altra l'anno successivo con il titolo Nov-antiqua [...] doctrina, che vuole sottolineare come la conciliazione fra Bibbia e conoscenza naturale fosse nella chiesa un'eredità patristica. Ambedue le traduzioni sono intese non solo a propagare le idee astronomiche, ma a dare un supporto epistemologico per creare un nuovo atteggiamento filosofico, oltre che scientifico. E in effetti Galileo, quando scrive la Lettera, tenta un'operazione coraggiosa in un'epoca in cui l'esegesi biblica era in ambito cattolico strettamente riservata agli ecclesiastici, ovvero legge (sicuramente con l'aiuto di religiosi amici, in primis il Castelli) i passi biblici controversi alla luce delle nuove scoperte, giacché meglio si conciliano con il moto dei pianeti intorno al sole che con le teorie geocentriche. Nonostante tutti gli sforzi di Galileo, che credeva che negare il copernicanesimo fosse uno "scandalo" per la chiesa, il Sant'Uffizio dichiarò eretica la tesi che il sole stesse al centro del mondo e che la terra si muovesse: la Congregazione dell'Indice condannò Copernico donec corrigatur insieme ad altri testi che avevano avanzato simili proposizioni, mentre Galileo venne ammonito ad abbandonare quelle tesi, ma non fu condannato. Fu uno scandalo (minore della condanna del 1933) e insieme una grave perdita, perché privò il mondo cattolico di quella libertà di ricerca e della possibilità che la divulgazione dei risultati della scienza potesse convivere con la religione cattolica. Ci resta il bellissimo sforzo di Galileo che mostra la radice umanistica della sua cultura che sa fondere scienza e fede, matematica e arte, osservazione e contemplazione. La Lettera si chiude infatti con una citazione di un inno attribuito a sant'Ambrogio, che elogia il dio che dipinge e orna il mondo con la luce e detta ordine alle stelle con la creazione del sole. Erminia Ardissino
Leggi di più
Leggi di meno