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recensione di Lauro, C., L'Indice 1994, n. 1
Con i saggi contenuti ne "L'arte del romanzo" (edito in Italia da Lerici nel lontano '59), le meditazioni critiche di Henry James su Balzac, Flaubert, Maupassant e Zola, nonché sul neoparigino Turgenev, rivelavano una sicura propensione per i realisti francesi. Adesso, l'illumimante antologia curata da Giovanna Mochi allarga il panorama dei maestri quasi a completamento di un secolo, e ai vecchi nomi si aggiungono Mérimée e Hugo, George Sand e Sainte-Beuve, Renan e i Goncourt, Alphonse Daudet e Pierre Loti. Senza contare, qui e lì, certi accenni jamesiani ai critici più eminenti: il saggio su Flaubert si legge spesso in contrappunto con quello, ammiratissimo, di Èmile Faguet. Si è scritto più volte sulla letterarietà di questi saggi, su quella loro avvincente componente biografica (quasi alla Sainte-Beuve), e anche l'ottima introduzione della Mochi non esita a paragonare i casi di "questi" Flaubert o Zola a quelli di certi personaggi dei romanzi di James (e non sembra lui stesso, il James critico, uno dei suoi tanti "americani a Parigi" divisi tra infatuazioni e diffidenze?). In realtà, poi, a ogni passo, questi 'portraits' esprimono l'attenzione tutta professionale di James ai procedimenti, alle tecniche e ai contesti caratteristici del romanzo francese. Di questo vasto continente James ammira innanzitutto quell'"acuto senso della superficie esterna" fatto di percezione, osservazione e analisi che caratterizza l'abilità, il mestiere dei francesi: il critico non ha difficoltà a riconosce con quale piacere attenda ogni novità di Alphonse Daudet o come si lasci conquistare dalla grazia, dalla "polverina dorata" con cui talenti come Pierre Loti riescono a ricoprire "ciò che c'è sotto, o piuttosto ciò che non c'è". In questo senso James è temporaneamente corruttibile, troppo autentico "lettore" per non vivere certi compromessi: sa, a tempo e luogo, mettere da parte il giudizio (il "vero" e il "bello") e lasciarsi coinvolgere dal "Novantatré" di Victor Hugo con tutti i suoi scompensi. Così, nel saggio su Flaubert, confessa una personale propensione (purché siano in qualche modo di qualità) per i fallimenti letterari, quali ponti più diretti e interessanti per la vera comprensione di un autore.
Ma non c'è, alla fine, tono concessivo o seduzione momentanea che non vada a fare i conti con la ferrea coscienza artistica di James e molti esordi entusiastici si schiantano su correttivi ineludibili: tutta la simpatia per Daudet ("mirabile genio" della leggerezza, "incantatore") non evita, alla fine, una curva discendente sulla costernante assenza di idee della sua produzione. Proprio come, in tutt'altro contesto, le pagine appassionate sulla vitalità dei sensi in Maupassant si impennano, a un certo punto, sulla perplessità (e, perché no, il disagio) ad accettare, come esclusivo, un punto di vista sulla vita così monocorde e, come tale, dunque, "poco interessante" (lo "spettacolo della vita" non è una "gabbia da scimmie"). È in frangenti come questi che James si domanda se la straordinaria e materialissima "superficie esterna" dei francesi (tutta sensi e passioni) valga il sacrificio di altre possibilità: l'introspezione, la "meravigliosa avventura dell'anima", la complessità.
Il polo di confronto, inutile dirlo, è il romanzo anglosassone con la sua impalcatura morale. In quasi tutti i saggi c'è un momento in cui James non rinuncia a proporre, ma con singolare equidistanza le debite differenze: ecco allora gli inglesi che non hanno mai allargato la sfera dei sensi delle passioni; gli inglesi che vedrebbero nell'indulgenza "egotistico-erotica" di un Loti la degenerazione del romanzo esotizzante e d'azione; gli inglesi da sempre incuranti delle bellezze della prosa e che giudicherebbero il cultore della composizione (come Flaubert) alla stregua di uno studioso di trigonometria; gli inglesi incapaci di adottare le forme brevi del racconto alla Maupassant o di occuparsi con tanta perizia delle vicende della piccola borghesia, ecc. Ma le autolimitazioni anglosassoni non necessariamente per James costituiscono un inconveniente (perlomeno, non minore della strada a senso unico dei francesi): l'austerità e la mancanza di amore di certi grandi romanzi, come "Middlemarch", di George Eliot - per citare un suo esempio - certo non sfigurano nel paragone con le descrizioni passionali di George Sand.
Non soltanto tali comparatismi sono in miracoloso anticipo su certe future intuizioni critiche (per esempio, quelle di Thibaudet negli anni venti). È la lucida visione d'insieme jamesiana che sembra postdatata, quasi a dispetto di tutte quelle compiaciute reminiscenze (gli incontri con Flaubert e Zola, il trepidante ricordo di Madame Bovary a puntate sulla "Revue de Paris") che invece confermano in James il contemporaneo (più o meno giovane) di tanti di quei "maestri".
È cioè una visione cui non sfuggono n‚ le apparizioni decisive, n‚ i deperimenti annunciati: non ignora, in tempi ancora caldi di beatificazione, l'"incredibile leggerezza intellettuale" di certo Hugo ("deserti di declamazioni e oceani di paradossi"); coglie, con eguale chiarezza, la modernità del Goncourt e la tappa decisiva di "Madame Bovary" (che fa retrocedere una Sand "alla stregua di una Mrs. Radcliffe, magari di prim'ordine"); osserva l'autocoscienza e lo stacco linguistici che distinguono Maupassant dai tanti narratori solo apparentemente simili; sottolinea benissimo la spinta salutare dei 'Rongon-Macquart' che ha permesso al romanzo di uscire da una "bancarotta" e di riacquistare credito.
Ad affiancare le analisi c'è sempre quella che James definisce la "tenerezza critica del nostro lavoro", cioè il grande rispetto di fondo per l'evoluzione e i percorsi, anche i più fallaci, dello scrittore. È una stroncatura certamente amara, sofferta (e, per una volta, non convincente) quella su "L'éducation sentimentale", "errore morale" di un Flaubert che non avrebbe compreso quanto la scabra coscienza di Frédéric Moreau fosse un medium inadeguato per tanta ricchezza di vita; ed è appena più pungente la diagnosi sul decadimento dell'ultimo Zola, dovuta a una progressiva caduta di Gusto (categoria molto jamesiana, come ci insegna Giorgio Melchiori).
La "tenerezza" ha certamente un punto di forza nel senso di "missione" e dedizione alla causa dei 'confrères' (o "compagni di bottega" o "membri della Corporazione") che si evincono in molti saggi e a cui James non è insensibile. Sainte-Beuve, cui James non perdona la femminile "malizia", è "letterario in ogni minima pulsazione del suo essere"; i "pazzi nevrotici" Goncourt "respirano" unicamente "nel mondo delle forme e dei soggetti" letterari, e gli imbarazzanti veleni del "Diario" sono riscattati da pazienza e operosità infinite dei due fratelli. Soprattutto la strada del romanzo ha i suoi martiri e santi: l'ossequio di James sfiora il ciclo zoliano (il "più grande atto di coraggio e di fiducia" nella storia letteraria) e s'arresta doverosamente su Flaubert, "romanziere dei romanzieri", venerabile come "la nostra coscienza, colui che si è sacrificato per noi".
Ma al fondo del percorso - e del volume - c'è la "lezione di Balzac", quella cui, come a nessun altro, deve il mestiere. James non potrebbe meglio ricambiarlo (su Balzac scrisse altri due saggi) che dispensando alcune memorabili riflessioni: basti l'accenno allo spreco e alla dispendiosità balzacchiane, contrapposti agli appunti programmatici di Zola, o le pagine dichiaratamente invidiose su "quantità" e "intensità".
Peccato che dopo tanti articoli sui realisti, manchi quello sulle esequie del realismo, cioè su Proust. Nonostante un'appassionata lettura de "La strada di Swann", James, forse già troppo vecchio, non lo scrisse mai.
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