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La libertà delle donne. Voci della tradizione politica suffragista - copertina

Dettagli

1990
1 giugno 1990
323 p.
9788870114065

Voce della critica


recensione di Scaraffia, L., L'Indice 1991, n. 2

Negli ultimi anni dell'Ottocento Mary Putnam Jacobi, suffragista e famosa donna medico degli Stati Uniti, defin la felicità come il "dispendio di energia in uno sforzo che ha successo": è proprio questo tipo di felicità quella che trasmettono le voci di donna raccolte e presentate da Anna Rossi-Doria. Come scrive lei stessa in conclusione, per le protagoniste dei movimenti emancipazionisti angloamericani non è stato tanto importante l'obiettivo finale - poi rivelatosi deludente rispetto alle grandi aspettative - quanto la scoperta della propria forza e delle proprie capacità "durante il percorso": "Noi ora conosciamo la gioia della battaglia", scrive la leader delle 'militants' britanniche, Emmeline Pankhurst. Il coraggio e l'entusiasmo costituiscono infatti la caratteristica che accomuna un gruppo femminile molto variegato e diviso, talvolta, anche sugli stessi obiettivi di lotta, perché è proprio la scelta di uscire dall'ambito del privato, di spezzare i rigidi ruoli tradizionali che provoca comunque, in tutte queste donne, l'esaltante sensazione di muoversi verso la libertà.
Anche se prima di questo momento storico c'erano state altre donne (sempre una minoranza) che erano uscite dall'ambito loro assegnato per parlare e intervenire nella sfera pubblica, esse lo avevano sempre fatto in nome di qualcun altro - Dio, una ideologia politica - che poteva giustificare questa trasgressione. Le sante mistiche che rimproveravano aspramente i papi e il clero dissoluto parlavano a nome di Dio; le eroine rivoluzionarie dell'89, tranne qualche eccezione, trasgredivano in nome di ideologie politiche concepite da uomini così come, più tardi, faranno le donne socialiste. Le protagoniste di questo volume, invece, affrontano il mondo esterno rivendicando qualcosa per sé stesse e mettono in discussione la cultura e la società esistenti da sole, con la propria logica e il proprio coraggio.
Questo è forse il motivo per cui la lettura di questo libro, se pure ponderoso e complesso, riesce così attraente. Dobbiamo riconoscere a Anna Rossi-Doria molti meriti (a dispetto del titolo in copertina, è senza dubbio molto più autrice che curatrice): si tratta infatti di un'amorosa e attenta scelta di scritti tratti da opere poco note al pubblico italiano, anche a quello specializzato, accompagnati da brevi ma intense biografie e da un apparato iconografico che ci restituiscono volti, caratteri, destini, di un gruppo di "antenate" particolarmente significativo per le donne contemporanee. A questo 'corpus' si aggiungono un'ampia cronologia del movimento emancipazionista in Gran Bretagna e negli Stati Uniti e un saggio finale. Abbiamo così una grande quantità di spunti per riflettere su un momento fondamentale della storia del rapporto tra i generi nell'età contemporanea.
La considerazione che si impone a una prima lettura è che la vita di queste donne è sempre strettamente segnata dalla loro militanza ideologica: come scrisse Margaret Fuller a proposito di Mary Wollstonecraft e di George Sand, la loro esistenza "dimostrò il bisogno di qualche nuova interpretazione dei diritti delle donne più di qualsiasi cosa che avesse scritto. Donne come queste, ricche di ingegno, teneramente compassionevoli, capaci di alta virtù e di una casta armonia, non dovrebbero trovarsi per nascita collocate in uno spazio così ristretto che nello spezzarne i ceppi diventano delle fuorilegge". Drammatiche contraddizioni che la stessa Fuller provò personalmente nella sua breve e tumultuosa esistenza, tanto da scrivere nel suo diario: "Regnerò sempre attraverso l'intelletto, ma la vita! la vita! Oh mio Dio! Non sarà mai dolce?"
Un'inquietudine esistenziale che le accomuna tutte, se pure in un ventaglio di tipologie esistenziali molto diverse tra di loro: si va dalla "scandalosa" Mary Wollstonecraft a Elisabeth Cady Stanton moglie felice e madre di sette figli, dalle prime donne medico a Charlotte Perkins Gilman, che arriva fino alle soglie della follia. Da donne che rifiutano l'amore maschile, come Christabel Pankhurst e Eleanor Rathbone, ad Harriet Taylor, prima compagna poi moglie di John Stuart Mill, che non solo ha influenzato il pensiero del marito, ma ha anche scritto alcuni degli articoli da lui firmati; da donne che muoiono sconosciute e povere a Jane Addams, grande organizzatrice di assistenza sociale per gli immigrati nelle città statunitensi, che ha vinto nel 1931 ex aequo il premio Nobel per la pace.
Le biografie ci permettono di cogliere i rapporti complessi, ma sempre determinanti, con i padri e i legami femminili, sia le fortissime amicizie, che costituiscono quasi sempre la base dei gruppi politici, sia i rapporti fra madre e figlia, come Emmeline e Christabel Pankhurst, leader dell'ala più militante del movimento suffragista inglese dal 1906 al 1914, che affrontano insieme scontri, prigione e violenti conflitti con le altre militanti.
L'importante influenza su molte militanti dei gruppi religiosi protestanti, in particolare evangelici e metodisti - numerose sono le figlie o le mogli di pastori - ripropone il problema se il cristianesimo protestante sia stato più favorevole, o meno sfavorevole, all'emancipazione femminile di quello cattolico. Nel campione preso in esame l'influenza dei gruppi religiosi è - se pure indiretta - molto forte soprattutto perché coinvolgendo le donne nell'organizzazione di servizi assistenziali, consentono loro un protagonismo esterno alle mura domestiche. Ma se il rapporto con le confessioni protestanti sembra determinante, non dobbiamo dimenticare che le società in cui è nato l'emancipazionismo sono soprattutto quelle in cui il sistema politico liberal-democratico si afferma prima e più radicalmente.
Sembra infatti determinante, come condizione base per la nascita e lo sviluppo di un movimento femminista, l'affermazione del sistema liberal-democratico e quindi l'emergere della sua contraddizione interna: l'universalità dei diritti dell'individuo coesiste infatti con la disuguaglianza dei diritti femminili. Come scrive Lydia Becker: "Fino a quando il potere politico era negato alla gran massa della popolazione, agli uomini come alle donne, gli svantaggi della esclusione delle donne dal diritto di voto erano relativamente meno importanti... Oggi tutte le richieste di potere politico basate sul rango, la ricchezza, l'intelligenza, l'istruzione, stanno cadendo in discredito, e il solo requisito del sesso è considerato l'unico titolo per i diritti politici nella richiesta di suffragio universale maschile. Nessuna forma di governo dunque, ignora i diritti politici della donna in modo cosi assoluto come la moderna democrazia".
Ma, come scrive Anna Rossi-Doria, la conquista dei diritti politici per le donne non fu solo "frutto di una progressiva estensione dei principi liberali e democratici" a un gruppo escluso, perché "l'esclusione delle donne dalla sfera pubblica era legata intrinsecamente alla loro soggezione nella sfera privata". Le emancipazioniste erano consapevoli che le loro richieste erano destinate a rivoluzionare le basi della società, e la loro battaglia ideologica non manca di affrontare questi temi, talvolta arrivando fino a una ridiscussione radicale della Bibbia, come Elisabeth Cady Stanton che nei suoi ultimi anni indicò proprio nell'interpretazione ufficiale della Bibbia il più grave ostacolo all'emancipazione femminile.
Ma il problema più immediato da risolvere era quello di far coesistere l'uguaglianza degli individui, sia donne che uomini, con il riconoscimento della differenza fra i sessi. Anche le suffragiste che si richiamano più radicalmente all'individualismo egualitario non rinunciano a sottolineare l'esistenza di virtù tipicamente femminili, come lo spirito di sacrificio e il ruolo di guida morale, da contrapporre alla natura maschile. In particolare, le emancipazioniste non mancano di valorizzare la potenza che deriva dalla maternità, e basano su di essa il concetto di "superiorità morale femminile" che è condiviso sia dalle suffragiste sia da quelle emancipazioniste che respingono la proposta di far partecipare le donne allo spazio politico. Queste ultime temono che l'adozione di un principio individualistico significhi l'imitazione dei caratteri morali maschili e la perdita di una specifica cultura delle donne.
Le tematiche discusse da queste "antenate" sono quindi molti simili a quelle che travagliano il movimento femminista contemporaneo, e a queste si possono aggiungere anche altre somiglianze: l'influenza sul movimento americano dei gruppi che combattevano per la libertà dei negri, e la tendenza a coinvolgere, nella ridiscussione critica della cultura "maschile", tutti i piani, compreso quello religioso.
Ma il pensiero suffragista, che alla fine dell'Ottocento sembrava orientato a una: modificazione della società in base a valori femminili, con l'ipotesi teorica della "maternità sociale", viene sconfitto dalla scienza positivista che riesce a dimostrare "scientificamente" che la differenza femminile è inferiorità. Come per altri gruppi fino ad allora emarginati, a cui la realizzazione della democrazia aveva consentito una partecipazione paritaria alla società e alla politica, come gli ebrei -commenta Rossi-Doria - , "il nuovo pensiero scientifico va a rintracciare nella natura la base delle differenze che fino ad allora erano state fondate sulla consuetudine".
Questa prima fase del movimento emancipazionista - frutto esso stesso della democrazia moderna - è sconfitta da quella "religione della scienza" che caratterizza la modernità trionfante tardo-ottocentesca: il determinismo naturale contro cui era nato si ripresenta più forte e diventa una vera e propria scienza.
Proprio questa sconfitta, così come le difficoltà che incontrano le richieste femminili, si possono però capire solo spostando lo sguardo sulla società in cui sono nate. In una situazione di veloce e travolgente trasformazione come quella tardo-ottocentesca, la necessità di garantirsi dei legami di continuità con il passato si presentava imperiosamente. Questa ricerca di armonizzazione fra cambiamento e permanenza si incentra intorno alla famiglia e, in particolare allo statuto della donna. Alle donne quindi si chiedeva al tempo stesso di partecipare alla modernizzazione e di mantenere la continuità: i ruoli familiari, in particolare i rapporti madre-figlio, si dovevano anzi rinsaldare per costituire un'isola di affettività immobile, garantita nonostante i cambiamenti. Il problema posto dall'ingresso delle donne nel mondo "pubblico" si intreccia così con uno dei temi fondamentali per la costituzione dell'identità individuale, quello dell'identità sessuale. Si intreccia drammaticamente, perché le polarità da cui si ricavavano le identificazioni sessuali - interno-esterno, maschile-femminile - si trovano spogliate di ogni pertinenza.
Il ruolo femminile è così stato, e per certi versi lo è ancora, al centro di una richiesta contraddittoria: si chiede, in sostanza, alle donne di continuare a restare identiche in un contesto che muta radicalmente ed è fatale, quindi, che questa contraddizione, congelata dopo la prima guerra mondiale, scoppi poi negli anni del femminismo contemporaneo. Non è stato ancora affrontato da parte di storiche o storici questo nodo fondamentale della storia contemporanea, cioè la crisi dell'identità sessuale collegata alla modernizzazione, riconoscendo il grande tasso di angoscia che ciò comporta.
Dietro all'euforia delle militanti emancipazioniste sta, ancora irrisolto, il drammatico dilemma che nel 1949 si pose l'antropologa Margaret Mead: "Educando le donne come gli uomini abbiamo commesso qualcosa di disastroso per le une o per gli altri o abbiamo fatto un passo in avanti nel compito ricorrente di perfezionare la natura umana originale?"


recensione di Beebe Tarantelli, C., L'Indice 1991, n. 2

Era la primavera del 1970: infuriava la guerra in Vietnam. Nixon aveva appena ordinato l'invasione della Cambogia, e il giorno prima alla Kent State University nell'Ohio la guardia nazionale aveva sparato su una manifestazione, uccidendo quattro studenti. Dopo sei mesi di assenza dagli Stati Uniti, mi trovavo a un'assemblea studentesca infuocata, al Mit a Cambridge. Eravamo angosciati dalle distruzioni causate dalla guerra e dalla responsabilità che, come americani, avevamo in quelle distruzioni; eravamo arrabbiati per la morte degli studenti a Kent State e determinati a resistere al nostro governo con tutte le nostre forze. A un certo punto dell'assemblea si alzarono cinque o sei donne, che, con passo quasi militare, si avvicinarono alla presidenza. Una prese il microfono e disse: "Chiediamo il 50 per cento dei posti del comitato coordinatore per le donne. Sono finiti i tempi in cui facevamo i ciclostilati e portavamo il caffè a voi maschi". Gli studenti alla presidenza senza battere ciglio fecero loro posto. Si vedeva che erano abituati. Nei sei mesi in cui ero stata assente dagli Stati Uniti, era esploso il movimento per la liberazione delle donne (come veniva chiamato allora).
Nei primi anni settanta, oltre alla proliferazione di gruppi femministi grandi e piccoli, oltre alla proliferazione di giornali e riviste che pubblicavano scritti su una varietà incredibile di argomenti, le femministe americane riesumarono le antenate (le 'foremothers', come venivano chiamate). Lavorando nelle biblioteche e negli archivi, studiando i romanzi e le poesie scritti da donne, riscoprirono la storia intellettuale e politica delle donne. Questa storia andava riscoperta perché era stata completamente sepolta. Certo, da studenti, leggevamo le opere della "Grande Tradizione" tra cui quelle di Jane Austen, le sorelle Bronte, George Eliot, Emily Dickinson, e Virginia Woolf; ma le leggevamo come se il sesso delle scrittrici non avesse avuto alcuna influenza n‚ sulla forma n‚ sul contenuto delle loro opere, come se nel prendere in mano la penna, non avessero dovuto lottare contro l'eco interiore dell'uomo di turno che con la voce gravida della tradizione, sentenziava: "Le donne non sanno dipingere; le donne non sanno scrivere" (queste parole sono il Leitmotiv di "Gita al faro"). Le battaglie politiche delle donne invece erano sparite del tutto dalla memoria collettiva come un buco nell'acqua; o se, per caso, le suffraggette venivano nominate erano viste come donne fanatiche, che si battevano in un modo un po' isterico anche se per una causa giusta. Insomma, nello scenario storico che faceva parte del bagaglio intellettuale dell'americano mediamente colto non vi era traccia del movimento politico delle donne.
La riscoperta delle antenate ebbe un effetto esplosivo ed euforizzante. Avevano lottato, creato, pensato prima di noi e in condizioni molto più difficili; le loro storie venivano assunte come storie esemplari che legittimavano le nostre ambizioni e le nostre azioni. La loro esistenza allontanava la paura che dal nulla eravamo venute e nel nulla saremmo tornate appena fosse passata la moda di 'women's liberation': facevamo parte di una storia in cui singole donne avevano scritto prima di essere legittimate a farlo e gruppi di donne avevano rischiato la ridicolizzazione, l'ostracismo, l'incarcerazione, anche la morte per reclamare diritti civili fondamentali per l'autonomia e la dignità delle donne. Instauravamo con loro un rapporto quasi personale, come se riesumando le storie delle loro azioni, riparassimo a un torto collettivo e pagassimo un debito di riconoscenza. In altre parole, recuperavamo per la storia le donne che erano state nascoste dalla storia ("Hidden From History" era il titolo di uno dei primi libri di questa ondata di femminismo). Nessuno allora avrebbe sospettato il fatto che oggi emerge ufficialmente da una mostra allestita al Museo di storia nazionale a Washington sull'età delle riforme - il periodo a cavallo tra Otto e Novecento in cui furono gettate le basi di tutte le politiche del 'welfare' statunitense: le lotte delle donne ebbero parte determinante nelle riforme di quegli anni, cioè nella creazione dello stato sociale moderno.
Siamo a vent'anni da quel 1970 e ai primi lavori celebrativi è seguita una quantità enorme di studi intelligenti e scrupolosi sulla storia politica delle donne negli Stati Uniti e in Inghilterra. Dopo vent'anni si può fare un bilancio politico delle idee e delle lotte di quelle donne senza le quali il nostro lavoro sarebbe impensabile. Mi sembra anche molto appropriato che a fare questo bilancio sia una donna come Anna Rossi-Doria, che viene da una tradizione politica diversa da quella anglosassone, e che può utilizzare, come fa, il meglio delle due tradizioni, quella europea, teorica, più astratta, e quella anglosassone, pragmatica, più concreta.
Dal suo eccellente saggio conclusivo emergono valutazioni molto significative. Rossi-Doria afferma che le lotte politiche delle suffragiste non erano mai limitate alla conquista del singolo diritto, per quanto importante fosse, ma facevano parte di un progetto più generale: l'affermazione della dignità e dell'autonomia delle donne. Afferma che queste lotte, che a loro volta creavano una rete di rapporti tra donne, erano anche concepite come uno strumento di autovalorizzazione. Afferma che queste donne capivano che con la loro battaglia invadevano lo spazio che per tutta la storia dell'umanità era stato esclusivo regno degli uomini, quello che Hannah Arendt chiama "lo spazio dell'apparenza", dove la singola persona rende visibile la propria esistenza. Con questa consapevolezza l'americana Paulina W. Davis afferma, nel 1850, che il progetto suffragista è di "carattere epocale": è un progetto che implica "l'emancipazione di una classe, la redenzione di metà del mondo e di conseguenza la riorganizzazione di tutte le istituzioni e di tutti gli interessi sociali, politici e industriali".
Le suffragiste si servivano di volta in volta degli schemi concettuali correnti (l'illuminismo per rivendicare l'uguaglianza dei diritti, il movimento evangelico per attribuire valore alla differenza sessuale). Ma non accettarono l'antinomia tra uguaglianza e differenza, che porta a lottare in modo esclusivo per l'una o per l'altra; vedevano questa antinomia per quella che è, cioè una trappola in cui l'affermazione esclusiva dell'uguaglianza rischia di portare l'omologazione delle donne all'universale maschile e l'affermazione esclusiva della differenza rischia di relegare le donne al ghetto della sfera "femminile", per antonomasia quella privata. La loro identificazione della 'women's sphere' come fonte di specifici valori femminili ha molto in comune con la nostra valorizzazione della differenza sessuale, e come loro contestiamo il potere politico e sociale da questo terreno. Faremmo anche bene, credo, a non abbandonare il loro tentativo di riconciliare le teorie dell'uguaglianza dei diritti con la cultura della differenza sessuale, rifiutando l'idea che i due termini siano antinomici, e perciò saremmo condannate a lottare per un'uguaglianza che è un'equivalenza o per una differenza senza diritti.

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