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Questo nuovo, esile, volumetto di poesie di Patrizia Valduga, con dedica inziale a Giovanni Raboni, "infinitamente amato", è suddiviso in tre sezioni, formalmente del tutto omogenee (si tratta sempre di distici in endecasillabi), ma diverse nei temi, nei toni e nei destinatari cui la poetessa si rivolge. La prima parte, che ricalca modalità delle litanie e delle laudi medievali, fino ad imitare le giaculatorie popolari della devozione cattolica a noi più vicina, è tutta dedicata alla malattia e alla morte del suo compagno, che viene scongiurata, maledetta, temuta, ricattata, in versi che talvolta raggiungono l'altezza della perfezione ("Tu che sei il mio permesso di soggiorno/per dovunque,non solo per Milano","Hai raddrizzato questo cuore storpio","Io sempre al limitare del mio niente"), altre volte si limitano a risultati un po' troppo facili e banali:"Signore di ogni tempo di ogni vita,/per la sua vita ti dò la mia vita". La seconda parte scandaglia le ragioni di un'angoscia esistenziale che attanaglia l'autrice dalla primissima infanzia, e che ha trovato requie e scampo solo nella solidità rassicurante del suo amore per Raboni:" Adesso, amore, metti insieme tutto:/angoscia e rabbia, panico e piacere","ma questo male impresso nella mente/mi ha portato da te, vero?, Giovanni...", salvandola da memorie di violenze, malattie, sessualità precocemente vissuta e patita, più di qualsiasi terapia psicanalitica. La terza sezione del libro ritrova l'amaro sarcasmo e l'invettiva di prove precedenti di Patrizia Valduga, quando depreca "la prosaglia di tutti i giornalisti", e la cultura modaiola, effimera, superficiale che ormai domina Milano e l'Italia, escludendo dai suoi giri verità e grandezza. Ma da tutto il libro il lettore ricava il sospetto di un compiaciuto concedersi a una sorta di atteggiato manierismo, assolutamente scaltrito nei suoi esiti formali, ma alla fine simile a un collaudato esercizio di retorica, che perciò suona poco autentico, poco sincero.
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