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Ancora un testo complesso, difficile da giudicare. Mi sono risolto per un voto alto per la sincerità ai limiti dell'autolesionismo e per la stima per quest'autore. Viene letto, specie nella pessima postfazione, come un testo puramente autobiografico. Be' secondo me l'autobiografismo, evidente, e' assai più un mezzo che un fine. Enquist vuol parlare, dispiegando quest'ammasso un po' disordinato di ricordi, di emozioni e di rimpianti, del suo lavoro, quello di scrivere. Va proprio al nocciolo della scrittura: al sentimento primigenio, al puro schizzo dell'immaginazione, al pensiero ancora non completamente tale. Personalmente ho sempre detestato gli autori che dicono, a proposito di un loro romanzo, di essersi "messi a nudo". Be', qui Enquist lo fa per davvero. E insomma, chi vuole scrivere dovrebbe leggere questo libro.
Il libro di Enquist è una lettura impegnativa, una sorta di flusso di coscienza in terza persona dove i ricordi si mescolano alle digressioni e alle riflessioni esistenziali. Alcuni riferimenti paiono criptici e si chiariscono solo molte pagine dopo. A dispetto di ciò, la scrittura riflette l'intensità del coinvolgimento dell'autore, la sua lotta per mettere ordine negli eventi passati e per cercare risposta alle eterne domande, divenute pressanti all'approssimarsi della fine del viaggio. L'amore è il grande tema rimosso, soffocato da una rigida educazione religiosa e da un ricorrente senso di inadeguatezza. L'immaginazione è il muscolo portentoso che permette di superare i limiti individuali e le costrizioni sociali. La redenzione passa dall'usare il talento ricevuto per scrivere finalmente un libro sull'amore, quello carnale che si sublima nella donna sul pavimento senza nodi e si fa esperienza mistica, rivelazione di una gratuità che rende liberi. Le pagine dedicate ai tre incontri con Ellen (l'ultimo in realtà postumo, mediato dalla nipote) sono splendide. Dopo due ottimi romanzi ('Il medico di corte' e 'La partenza dei musicanti'), ho ritrovato un grande scrittore.
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