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Sembra incontestabile che il linguaggio serva a comunicare, ma la parola può assolvere anche un’altra funzione: quando è necessario, essa confonde e occulta. Lo sanno gli adulti e i bambini, i filologi e i banditi: tra le facoltà implicite del linguaggio, c’è quella di smontare e ricostruire una lingua per farne un idioma nuovo, sconosciuto, accessibile soltanto a pochi.
«Solo il verso ispirato funzionerebbe da antidoto contro il lavoro linguistico che caratterizza l'automatismo del call center e le ingegnose peripezie della formazione permanente. In un panorama così intricato l'ultimo libro di Daniel Heller-Roazen è uno strumento formidabile, che si serve di una splendida silloge di esempi - Marco Mazzeo, Alias
«Leggendo "Lingue oscure. L'arte dei furfanti e dei poeti" viene un forte desiderio di dedicarsi a studi di letteratura comparata e una subitanea invidia per chi, come lui, lo può fare con il profitto e il divertimento che da questo libro in più punti saltano fuori» - Azione
«Lo studioso si inoltra in idiomi, vernacoli e codici che fanno parte della storia passata, e lo fa con acribia filologica.» - la Stampa
È dal Quattrocento, in Europa, che si attestano le prime lingue intenzionalmente segrete. Sviluppate da malviventi e briganti, queste si diffusero in tutti i volgari moderni: dal gergo dei banditi francesi al thieves’ cant dell’Inghilterra rinascimentale, dal dialetto dei ladri denunciato da Martin Lutero ai furbeschi degli imbroglioni italiani, portoghesi, spagnoli. Ma l’arte di forgiare parole impenetrabili risale molto più indietro nel tempo, e non è sempre stata legata a tali equivoche finalità. In India, nell’antica Grecia e a Roma, in Provenza e in Scandinavia, cantori e scribi si sono appropriati delle lingue intorno a loro e le hanno alterate, non per ingannare, bensì per rivelare e tramandare un’entità sacra: l’idioma degli dèi, del quale i veri maestri – così si diceva – erano i poeti e i sacerdoti. Lingue oscure si destreggia abilmente tra questi multiformi linguaggi ermetici. Dall’argot criminale al gergo degli spiriti, dal lavoro di Saussure e Jakobson sugli anagrammi e le strutture subliminali nella poesia, fino al codice segreto che il dadaista Tristan Tzara pretendeva di aver scoperto nelle opere di Villon, Lingue oscure esplora le arti condivise da furfanti ed enigmisti che seppero giocare a scacchi col suono e col senso delle parole.Indice
Del parlare in lingue
di Luigi Azzariti-Fumaroli
La lingua conduce una doppia vita. Se da un lato essa si conforma alle consuetudini “borghesi”, che la vogliono subordinata alle esigenze della comunicazione convenzionale, dall’altro se ne sta rincantucciata negli anfratti più riposti ed oscuri, quale ribaldo scherano. Quest’ultima “è quella lingua – scriveva nel 1634 Niccolò Villani nel Ragionamento dell’accademico Aldeano sopra la poesia giocosa – che malavventurosamente dalle persone che la frequentano è chiamata furbesca”. E che pur assumendo, a seconda dei Paesi, nomi diversi – gergo, argot, rotwelsch, cant, slang – ha caratteristiche quasi sempre identiche: la deformazione fonetica intenzionale per metatesi o per epentesi, l’assimilazione di vocaboli stranieri, l’utilizzo di una congerie di figure epigrammatiche e anafonie, siccome di motti confetti, talora osceni e bizzarri, tal’altra eco di geroglifici sonori e di primitive formule idiomatiche.
Si tratta – notava Graziadio Isaia Ascoli nelle sue Memorie sulle lingue furbesche (in Studi critici, vol. 1, Gorizia 1861) – di una “furtiva creazione dell’intelligenza umana, intorno alla quale troviamo assidui, con intenti diversi, i Militi della Scienza e le Autorità di Pubblica Sicurezza”. Spinti dal medesimo intento di rischiararne le ambiguità, sono infatti stati i tutori dell’ordine non meno dei linguisti ad interrogarsi sui peculiari idiomi parlati dai malfattori. Come ricorda Daniel Heller-Roazen nel suo Lingue oscure. L’arte dei furfanti e dei poeti, apparso nel 2013 presso Zone Books e ora tradotto da Quodlibet, fu non a caso Thomas Harman, un magistrato inglese che nel 1567 diede alle stampe il Caveat or Warning for Common Cursitors, l’apripista di un’amplissima messe di studi e ricerche sul gergo criminale: cui hanno dato decisivi contributi, fra gli altri, Jean Rabustel, Marcel Schwob, Eugène-François Vidocq e, nel Novecento, David W. Maurer, autore di The Big Con, fondamentale contributo alla comprensione del “rhyming slang” americano.
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