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tutto sommato deludente, anche se con qualche sprazzo di originalità.
[...] Come sempre Rugarli narra con maestria, una storia intimista, quasi minimale nel coinvolgere solo poche persone, in un racconto il cui sapore è già tutto racchiuso nel titolo, la luce prevalente è infatti quella lunare - o crepuscolare -, anche quando la narrazione si svolge di giorno, c’è sempre poca luce, spesse coltri di nubi o pioggia fitta a ricreare una luce amarognola che non rallegra, ma accompagna i pensieri dei protagonisti a bordeggiare sul Naviglio del Brenta, che divide Malcontenta in due, e tra le campagne delle zone meno pittoresche della laguna di Venezia, quale è Marghera. Il filo della narrazione si srotola tutto sul percorso di questi amori, non corrisposti, o rispediti al mittente, che causano tristezze, venate spesso di follia, e perfettamente riesce a portare in luce quel lato del cuore, uggioso e malinconico che accompagna imperterrito intere esistenze, sebbene con sporadiche schiarite; ogni giornata incide col suo tetro sigillo, nella laguna di Venezia, il clima è spesso plumbeo, e affoga i bei ricordi in scrosci di acquazzoni, scolorandoli, e anche nel nome della città di Marghera – evocata sovente nella narrazione – vi è insita una tristezza nostalgica, infatti il nome significa (dal dialetto locale) el mar g’hera, ovvero il mare c’era, ora non c’è più. Come non c’è più l’amore per i protagonisti, non ci sono più grandi speranze per il futuro, e non ci sono più tanti libri, coi loro grandi sogni racchiusi nelle pagine, perché il macero impietoso li ha eliminati. Un libro veramente bello, che si lascia leggere come una melodia, scritto da una grande mano, che in questo caso abbandona i suoi tipici toni da noir sociale insieme ai calembour di stampo gaddiano, per rivolgersi completamente al lato della luna che di solito non vediamo, i sentimenti che finiscono ma non si sradicano, i libri che spariscono ma non si dimenticano. Lo consigliamo vivamente anche come esempio di amore verso il gusto della scrittura e l’abilità di costruzione di un tessuto narrativo impeccabile[...]
Recensioni
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Può trasmettere messaggi pessimisti un linguaggio brillante e scatenato? Non sembri fuori luogo l'interrogativo. Il Rugarli di La luna di Malcontenta è veramente in uno stato di grazia, uno scrittore "caparbiamente fedele a se stesso e al suo feroce, desolato e vitale pessimismo", come scrive Cesare De Michelis nella bandella di copertina. E la sua scrittura ha una leggerezza di tocco e una grazia che ben s'adattano alle infelici (ma non di rado comiche) vicende dell'io narrante e di Giulia, lui anziano magazziniere della casa editrice Avicenna, lei giovane dirigente della stessa, poi caduta in disgrazia e infine licenziata per la sua incapacità di accettare compromessi, accomunati dalla reciproca propensione alla sofferenza e alla sfiga, e per questo spinti a incontrarsi e a capirsi, fino a convivere come marito e moglie. Lui da innamorato non corrisposto, lei grata al magazziniere, che è anche addetto al macero dei libri invenduti, per l'affetto che ne riceve, benché ancora innamorata di un notaio sposato che dopo dieci anni di relazione l'ha malamente scaricata.
I nostri eroi lavorano in una casa editrice con venti addetti, a Preganziol in quel di Treviso, e vivono, prima di mettersi insieme, lui a Marghera e lei a Malcontenta, tra i fumi e le nebbie della laguna veneziana. Dell'Avicenna è padrona assoluta la signora Conchita Winkelmann, che fa e disfa, coadiuvata da tre dirigenti malmesse (una monca, una orba, una sciancata), e provvede ai suoi libri sferruzzando e ammonendo perpetuamente che "questo è poco ma sicuro". Nello scantinato di questa corte dei miracoli troneggia l'io narrante, un sessantacinquenne triste e saggio, abbandonato dalla moglie, addetto al macero dell'enorme quantità di libri che l'Avicenna stampa ma purtroppo non vende. Rugarli ha disegnato nel magazziniere una figura indimenticabile, degna del professor Kien di Auto da fé di Elias Canetti, che sciorina a ogni piè sospinto la sua tetra filosofia di vita condita da un irresistibile e funereo umorismo: "Il miglior modo di vivere è dimenticarsi di essere vivo", oppure: "Accetto tutto, pur di essere qualche cosa", e così tira avanti senza altro scopo che attrezzarsi per arrivare alla sospirata pensione.
La grande e amara metafora del romanzo consiste nella constatazione che ormai il destino dei libri è segnato, l'elettronica ne ha decretato la morte sicura. E allora mandiamoli allegramente al macero. "Non si vuol capire che oramai sono arnesi usa e getta, o forse soltanto getta? In un paese dove tutto è indifferente e mediocre, perché solo l'editoria dovrebbe fare eccezione?".
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