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Fredi Melchior Murer è una figura di cineasta poco conosciuta anche tra gli appassionati di cinema. La sua attività di autore, iniziata nei primi anni sessanta, si è sempre declinata all'insegna di un alto grado di marginalità. Diretta espressione della cultura walser, il suo cinema ha rappresentato sin dagli inizi l'occasione per dar voce agli artisti (Chicorée, 1966; Bernhard Luginbuhl, 1966; Sad-is-fiction, 1969) e ai montanari (Wir Bergler in den Bergen…, 1974) che la incarnano. Sempre ambientato nell'universo isolato delle malghe in alta quota è il lungometraggio che viene ritenuto il suo capolavoro: quel Höhenfeuer (1985), Pardo d'oro a Locarno, che raccontando l'amore incestuoso di due fratelli che vivono in un alpeggio si eleva fino a raggiungere la dimensione della tragedia classica.
Nel volume curato con grande attenzione e passione dal critico Paolo Vecchi, è lo stesso Murer a cercare di spiegare l'originalità e la complessità della sua opera maggiore: "Sono sempre stato attratto dall'avanguardia, anche se non mi sentivo necessariamente parte di essa. Piuttosto mi sono trattenuto troppo nel polverone che essa ha sollevato nell'arte cinematografica. Crescendo sempre più in me l'interesse per il teatro, accettai un incarico di assistente alla regia al Teatro di Zurigo, durante una rappresentazione scenica della Medea di Euripide diretta da Luca Ronconi. Per farla breve, fu l'incontro con Luca e contemporaneamente con Euripide a farmi dare a Höhenfeuer un taglio classico. La rilettura dei classici greci mi diede il coraggio di essere più radicale, laddove fino ad allora non ero andato al di là della forma e del contenuto". A tale ispirazione teatrale e artistica va tuttavia accostato l'interesse di Murer nei confronti della dimensione etnografica. E sempre a proposito di una scena di Höhenfeuer, Murer ricorda che"quella di coprire lo specchio quando il morto è ancora in casa è un'antica usanza della regione di Uri, che del resto esiste anche in molte culture extra-europee e non cristiane. Mi piaceva molto il suo aspetto magico-animistico e ho voluto riportala pari pari".
Ancora: sempre a proposito del cinema del sessantasettenne regista svizzero di Lucerna il volume sottolinea un ulteriore elemento di originalità. In tal senso, già alla fine degli anni ottanta il critico Freddy Buache scriveva che "la forza di Murer sta nell'evitare i cliché legati alle lusinghe che suscita da sempre nel cinema svizzero la bellezza del paesaggio alpestre. È risaputo che il culto delle vette, dei ghiacciai sublimi e delle nevi eterne è stato all'origine di una specie di teologia espressa con metafore che, attraverso la via indiretta di una mistica dello sforzo, assimilano le ascensioni difficili di minacciose pareti di roccia a picco all'avvicinamento a Dio". Ma per il Murer di Höhenfeuer "l'avvicinarsi del cielo non equivale più a una 'catarsi', alla repressione dei desideri profondi, ma al contrario all'esplosione degli stessi attraverso la distruzione dei tabù". E, come spiega lo stesso curatore del libro, "in Höhenfeuer le vette alpine non si vedono quasi mai. Come già in Wir Berlger in den Bergen… Murer preferisce gli scorci, le scoscese frastagliate spesso avvolte, o contrastate, dai colori di una natura brulla, invernale. Solo in qualche raro momento la visione della montagna assomiglia a quelle del senso comune; e tuttavia il paesaggio domina la vicenda, viene indagato continuamente dai protagonisti col binocolo, distingue il tipico e, al tempo stesso, ne crea uno diverso".
Mosca
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