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Io, lettore a vita si intitola l'ultimo capitolo di questo volume, sospendendo il senso fra l'ironia di una autoinflitta condanna e il legittimo vanto di un impegno, di un ruolo confermato in cinquant'anni di infaticabile attività: quello di Golino è stato ed è tuttora un punto di osservazione a 360 gradi, un panòpticon sulla produzione letteraria e sulla vita culturale del nostro paese, e ora prende forma definitiva nell'evidenza delle mille voci che hanno creato quella vita ("mille" è dir poco, più di duemila sono i nomi citati, alcuni naturalmente più volte) e dei mille nessi interni che l'hanno vivificata. Un imponente catalogo della contemporaneità, articolato in sette sezioni nutritissime e piuttosto elastiche (grosso modo: i problemi teorici, le iniziative editoriali, le opere che più hanno segnato un periodo, le figure rappresentative, i temi principali, la cultura napoletana, il mondo dei media) che ne mitigano la necessaria frammentarietà, lasciando scorgere un filo unitario della riflessione e degli interessi dell'autore.
Golino si definisce "critico militante", ma la sua è una militanza sommessa, di pura osservazione mai invadente e mai perentoria, che al giudizio preferisce il circostanziato resoconto, e che riesce nel difficile equilibrio di insistere sul pensiero altrui tenendo il proprio nell'ombra, sempre obbedendo a un molto caratteristico registro personale. Filo unitario è dunque uno stile, ma è anche una, o una serie di posizioni concettuali e metodologiche che emergono a tratti lungo tutto il lavoro. Non a caso il titolo del volume riprende nel 2011 esattamente quello di un saggio pubblicato nel 1982-83 su Il cavallo di Troia e qui collocato in apertura, quasi a indicare una strada. Storia e scrittura, ovvero storia e narrazione: nei due decenni precedenti era deflagrato in Francia e poi in America un nodo teorico a lungo preparato ma a oggi tutt'altro che risolto, che metteva a confronto, con alterne ragioni, "storici" e "letterati": qual è il rapporto fra la realtà e il nostro modo di apprenderla? Nel documento scritto chi prevale fra il fatto, base della Storia, e l'immaginazione, l'ideologia, la retorica di chi lo racconta, e magari di chi lo legge? E oggi, in particolare, possiamo continuare a distinguere le cose da come le rappresentiamo, o non ci troviamo piuttosto di fronte a un'interazione da cui è difficile districarsi? E parlando di "storia letteraria" non parliamo forse di una contraddizione in termini?
Questi gli interrogativi sottintesi nella discussione del progetto significativamente intitolato Letteratura e non "Storia della letteratura" italiana, con cui Alberto Asor Rosa avviò nel 1982 un ripensamento di tutto il genere, e di cui Golino cita, approvando l'invito al "rispetto del testo" e dei suoi "aspetti segnico-formali", contro "la perdita d'identità del fenomeno letterario, la sua dissoluzione nel flusso indistinto ed eterogeneo degli avvenimenti storici" presente in tante opere affini. Sono le avvisaglie di una tensione che avrebbe sollecitato, insieme ai teorici, anche i praticanti dei generi letterari più disparati, sotto la spinta delle grandi novità invalse nel mondo dei media; e che in questi saggi continua un suo percorso carsico per affiorare in più punti, e per attestarsi fra due estremi, uno rappresentato dall'intervista in cui Edoardo Sanguineti (nel 2006) pone l'alternativa secca fra "storia" e "letteratura" ("Una volta frantumata, giustamente, la categoria di 'storia della letteratura', o si sceglie astoricamente la 'letteratura' o, se è vero come insegnava il buon materialismo storico che non c'è che storia, si sceglie la 'storia'"); l'altro rappresentato (nel 2000) dalla depressione di un romanziere, Franco Cordelli, di fronte all'esaurimento della realtà ("La realtà, i fatti non esistono" dice un suo personaggio) aggirata dalla manipolazione mediatico-ideologica (che nella letteratura ha la sua punta di diamante): "La letteratura non riflette la realtà ma sembrando rifletterla la crea".
E in mezzo a questi termini il tumulto delle posizioni rilevate in figure maggiori e minori, dalla "sovrana costellazione" formata da Contini, Debenedetti e Pasolini, concordi nella convinzione che "la sollecitazione formale della letteratura contribuisce alla conoscenza della realtà", all'amara verifica storica di Cesare Garboli "Il nostro secolo ha incontrato se stesso non nella giovinezza
ma nella putrefazione, nella lenta ma anche inaspettata corruzione del sogno antifascista"; dalla Letteratura come menzogna, ovvero l'"addio alla verità" e quindi alla verificabilità storica di Giorgio Manganelli, alla "soggezione al demone storiografico" di Giulio Ferroni, ecc.: tutti modi per accampare, come succede in Attilio Bertolucci, "il tempo della poesia" contro "il tempo della storia", e non importa a chi andrà la vittoria finale.
Una conclusione è comunque intravista da Golino, già all'inizio, nel "connubio che s'ha da fare" tra i due contendenti. A noi compete precisare che non si tratta di raggiungere un compromesso purchessia: come già avvertiva Manzoni (nel 1829!), "assentimento poetico" e "assentimento storico" stentano ad accordarsi. Oggi non si è più soggetti al "massiccio pregiudizio realistico" (e storicistico) che Golino denunciava negli anni ottanta; oggi la scoperta dell'opacità e polisemia della parola ha rotto definitivamente il rapporto fiducioso fra testo e contesto, ha messo in crisi il realismo e con esso le forme tradizionali della storia letteraria. Quel connubio è diventato difficile, come dimostrano molti romanzi del nostro tempo in cui la storia si configura come un incubo, una successione di tragedie impossibile da ricomporre nelle forme razionali del passato. I neostorici americani hanno cercato di uscire dallo stallo sostituendo al connubio una separazione consensuale e binaria: "Testualità della storia e storicità dei testi", dicono loro; ma non è altro che una riproposizione del problema.
Un'ultima notazione appare qui necessaria: tutti questi saggi, salvo rare eccezioni, sono apparsi sul giornale e il settimanale del gruppo Espresso: all'omaggio all'autore vogliamo dunque aggiungere l'omaggio all'editore. Di fronte al continuo depauperamento degli strumenti di riflessione e di critica che la carta stampata sta subendo, questi restano esempi di resistenza nel senso più comprensivo e più nobile.
Franco Marenco
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