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Antonio Daniele dedica a Gabriele D'Annunzio, Carlo Stuparich, Carlo Emilio Gadda, Camillo Sbarbaro e Niccolò Carandini i sette capitoli di questo suo bel libro. Non è un libro di critica letteraria. L'autore lo dice nella sua breve presentazione (A mo' di premessa), ma lo fa con il suo tipico sottotono: "Spero che questo libro riveli qualcosa di più degli scrittori che prende in esame". E vuol dire: qualcosa di più della sensibilità e dei pensieri di questi uomini, che si trovavano a essere intellettuali e scrittori, di fronte all'esperienza della guerra.
Come arriva Daniele a selezionare questo manipolo di autori tra tutti quelli, e sono tanti, che hanno scritto sulla loro partecipazione alla prima guerra mondiale? la risposta è semplice: mettendo il compasso sul capoluogo dell'altopiano d'Asiago (o dei sette comuni) e tracciando un piccolo cerchio. Quanti tiri di cannone, tra austriaci e italiani, quanti morti, in quel piccolo cerchio tra il maggio e il giugno del 1916! La popolazione era stata interamente evacuata, i centri abitati furono interamente distrutti. L'altopiano diventò per molti decenni un terreno di recupero di residuati bellici (ne ha scritto Mario Rigoni Stern, che è di questo altopiano, protagonista e testimone d'eccezione della guerra seguente).
Vediamo il filo che lega i capitoli di quest'opera che, a dispetto di quanto potrebbe apparire a prima vista, non è una sequenza di medaglioni, ma un tutto organico, un vero e proprio libro.
Nel primo capitolo si tratta del volo su Trento di D'Annunzio, eseguito partendo dal piccolo aeroporto di Asiago il 20 settembre 1915. Nel secondo, l'autore ci presenta Carlo Stuparich, suicidatosi per non cadere, lui, triestino, suddito austriaco, prigioniero degli austriaci (30 maggio 1916), offrendo il collo al cappio del boia, come capiterà, tra gli altri, a Cesare Battisti. Le testimonianze vengono dal fratello Giani, che scriverà su di lui Ombre cose di uno (Roma 1919), e riguardano non solo Carlo, ma l'amico Scipio Slataper (morto in seguito a una ferita sul Podgora il 3 dicembre 1915). Attraverso le lettere di Carlo, si accenna anche una ricostruzione dell'ambiente culturale fiorentino, letterario e filosofico, in cui erano cresciuti culturalmente i tre triestini, con la guida del maestro Giuseppe Prezzolini.
Il terzo capitolo tratta di Carlo Emilio Gadda e della sua mancata prova del fuoco a Magnaboschi, una valletta vicina ad Asiago, scenario di un'orrenda carneficina nei giorni della Strafexpedition (giugno 1916). Gadda era smanioso di mettersi alla prova, e invece gli toccherà poco più tardi la "vergogna" della prigionia. I fili dei due capitoli precedenti si annodano nel quarto: vediamo Giani Stuparich sulla tomba del fratello sull'altopiano, a Cesuna (agosto 1922), e parallelamente il lutto che tormenta Gadda per la morte del fratello aviatore Enrico. Nell'uno e nell'altro caso vediamo emergere la sindrome del sopravvissuto: lo stesso senso di colpa che proveranno gli ebrei scampati al lager, come ha testimoniato drammaticamente Primo Levi. In Gadda, come in Stuparich, c'è l'idea della propria inferiorità rispetto al fratello caduto: io, ero io, sembrano gridare tutti e due, non mio fratello, quello che doveva morire, e invece io, l'indegno, sono sopravissuto.
Altri fili si annodano nel quinto capitolo, quelli del primo e del terzo: sorprendiamo per un momento l'euforico D'Annunzio nel 1916 dopo il volo su Trento, e scopriamo con sorpresa un Gadda dannunziano. Era un ammiratore fervente del vate, pronto ad attaccar briga con chiunque, nei vari circoli ufficiali, ne mettesse in dubbio la grandezza e il messaggio. Ed ecco le letture di Gadda durante il riposo forzato che segue al massacro mancato a Maganboschi. Gadda racconta anche come si procurava i libri da leggere. Una volta ne aveva prelevati tre dalla canonica distrutta del parroco di Roana, don Andrea Grandotto. Don Andrea, ci racconta Daniele, era un prete pacifista, confinato in Puglia, poi di nuovo prete, ma non più parroco, sull'altopiano. E infine, in una brevissima scheggia, un momento privato di sconforto del generale Cadorna, che una volta, dall'altopiano, ha scritto alla moglie, con espressioni simili a quelle di papa Bendetto XV, che forse la guerra era una strage inutile.
Il sesto capitolo è dedicato a Camillo Sbarbaro, la cui figura contrasta così vivacemente con quelle, pur tra loro così diverse, degli autori visti fin qui. Sbarbaro si definisce "buono a niente" e "povera pecora". Fatto ufficiale quasi a forza, avrebbe voluto rimanere nella Sanità, un corpo per il quale si mostrava spesso al tempo disprezzo. Anche in guerra Sbarbaro, "estroso fanciullo", amava scherzare. Scriveva per esempio ai genitori di essere "imboscato" sull'altopiano: "da dieci giorni, dice, sono sul Ghelpach imboscato nel senso proprio della parola, cioè in un fitto d'abeti altissimi". Ma Sbarbaro la sua guerra, in realtà, l'aveva fatta davvero, lui con i suoi fanti. Sbarbaro è il solo che porti l'ironia nella materia sanguinolenta di Magnaboschi. E c'è in lui anche un po' di autodenigrazione, quasi un alito di Céline (Viaggio al termine della notte), ma senza il suo spirito di Tersite. L'ultimo capitolo, infine, è dedicato all'autobiografia tardiva (2005) di un grande uomo politico e intellettuale liberale, Nicolò Carandini.
Il percorso di questo libro porta dall'eroismo individualista di D'Annunzio al patriottismo degli irridenti Stuparich (nei quali viene in primo piano tuttavia l'elemento interiore, psicologico e familiare) e a quello maniacale di Gadda. Se la guerra era stata per questi uomini anche (e forse in qualche caso soprattutto) una prova fatta su se stessi, un terribile autoesame, con effetti esilaranti in D'Annunzio, ma quanto deprimenti sugli altri, Sbarbaro si era invece bocciato subito da solo. In Carandini c'è il senso profondo della responsabilità di chi oggi è ufficiale e domani sarà classe dirigente. Tanti autori, tanti modi di vivere la guerra, e anche di morire in guerra.
Lorenzo Renzi
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