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recensione di Revelli, M., L'Indice 1990, n. 1
L'Italia non ha avuto una propria rivoluzione (e questo, purtroppo si sa, è fonte di molti dei nostri mali politici e culturali). Ma l'Italia non ha raggiunto neppure un'adeguata comprensione della rivoluzione degli altri. Se un filo di continuità sembra attraversare la nostra cultura storica nell'Ottocento, e caratterizzare l'ideologia italiana nelle sue radici, questo è costituito dal moderatismo, dalla accomodante polemica contro l'intransigente "astrattezza" e l'universalismo dello spirito rivoluzionario in nome della legalità e della mediazione, dal moralismo astorico, dal gusto della conciliazione e dal timore della rivolta. Lo documenta Furio Diaz in questo ruvido 'pamphlet', scritto fuori dai denti, senza prudenza accademica . Reazionari e superficiali furono gli ex rivoluzionari pentiti come il Cuoco, il Colletta, il Blanch, accomunati dall'incomprensione delle radici profonde, sociali, storiche, del moto rivoluzionario e impegnati a scaricare sui fatti d'oltralpe "gran parte dei mali" delle esperienze politiche di casa nostra, nate quando già lo slancio della Grande Rivoluzione si era attenuato o importate dalle baionette napoleoniche. Allo stesso modo banali furono le argomentazioni di uomini come Lazzaro Papi e Carlo Botta, anch'essi in gioventù coinvolti dal clima rivoluzionario, e tuttavia moralisticamente atterriti di fronte al giacobinismo e pronti all'anatema di fronte alla condanna del re. Ma è soprattutto nella storiografia risorgimentale che si svela la debolezza (la "meschinità", dice Diaz riprendendo un giudizio di Gramsci) e il moderatismo dell'ideologia italiana; nel distacco dalla Rivoluzione di gran parte degli storici impegnati in politica, primo fra tutti Cesare Balbo (per il quale la rivoluzione francese fu tutta "una vergogna", dai quali si distaccarono solo pochi "eretici" minoritari come Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari. Occorrerà attendere la fine del secolo, ci ricorda Diaz, occorrerà Salvemini (pur con tutti i suoi limiti), per riportare il discorso alle sue "radici": alle dinamiche sociali, alla crisi dell'"ancien régime", alla necessità della rottura. A una giusta ricollocazione storica della Rivoluzione. Guizot aveva osservato, nel suo "Cours d'histoire moderne" che all'Italia "manca ciò che le è sempre mancato, ciò che dappertutto è una delle condizioni vitali della civilizzazione, le manca la fede, la fede nella verità". Diaz ce lo ricorda oggi. Per questo il suo breve libro, decisamente inattuale, non piacerà agli scettici, ai sofisti accademici, ai relativisti dal pensiero più o meno debole, agli unanimisti e ai moderati. A quelli vecchi, e a quelli nuovi.
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