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Il saggio di Panara ha l’obiettivo di spiegare come la perdita di valore del lavoro si sia tramutata in una generalizzata crisi del sistema occidentale, una crisi non solo lavorativa, ma anche politica, sociale e culturale. Panara è in grado di intessere una spiegazione avvincente, quasi narrativa, che dipana le molteplici cause di questa svalorizzazione del lavoro. La spiegazione sembrerebbe regge, la tesi risulterebbe ben strutturata e lineare, ma…. C’è un grande ma, perché non ci sono le fonti della sua tesi. I riferimenti nella letteratura sono pochissimi, non c’è una bibliografia ed è strutturazione del percorso logico, benché risulti razionalmente lineare, è lasciato alla fiducia del lettore. Peccato, si sarebbe potuto fare diversamente e il saggio avrebbe avuto tutto un altro valore.
Dopo una prima parte dedicata ad illustrare come lo sviluppo tecnologico e la globalizzazione stiano contribuendo in vari modi a svilire il lavoro, e quindi a generare povertà, l'autore descrive come è nata, come si è evoluta e che conseguenze ha avuto sul lavoro la crisi finanziaria del 2007-08 (il libro è del 2010). Molto interessante anche la parte successiva, dedicata al rapporto lavoro-democrazia. Definirei invece 'ottimista' il capitolo finale, "Uscire dalla trappola". Arrivato al termine del libro ho ripensato a Malthus: in passato gli esseri umani erano condannati ad una povertà quasi generalizzata perché non controllavano la crescita demografica resa possibile dal progresso tecnologico (solo le guerre/epidemie avviavano, paradossalmente, periodi di benessere per chi sopravviveva). Solo dopo la rivoluzione industriale una parte importante e crescente dell'umanità ha goduto di un discreto e duraturo benessere materiale. Ma ora corriamo il reale rischio di tornare a condizioni di diffusa povertà, non solo per la crescita demografica, amplificata dalla globalizzazione che fonde i diversi mercati del lavoro, ma anche per lo sviluppo tecnologico che distrugge molti lavori. Che il tanto temuto (chi ci pagherà le pensioni?) calo demografico sia, assieme ad una seria politica di redistribuzione, invece un’auspicabile via per salvaguardare sia l'ambiente che il benessere diffuso e, con esso, la pace sociale e la democrazia?
Dopo una prima parte dedicata ad illustrare come lo sviluppo tecnologico e la globalizzazione stiano contribuendo in vari modi a svilire il lavoro, e quindi a generare povertà, l'autore descrive come è nata, come si è evoluta e che conseguenze ha avuto sul lavoro la crisi finanziaria del 2007-08 (il libro è del 2010). Molto interessante anche la parte successiva, dedicata al rapporto lavoro-democrazia. Definirei invece 'ottimista' il capitolo finale, "Uscire dalla trappola". Arrivato al termine del libro ho ripensato a Malthus: in passato gli esseri umani erano condannati ad una povertà quasi generalizzata perché non controllavano la crescita demografica resa possibile dal progresso tecnologico (solo le guerre/epidemie avviavano, paradossalmente, periodi di benessere per chi sopravviveva). Solo dopo la rivoluzione industriale una parte importante e crescente dell'umanità ha goduto di un discreto e duraturo benessere materiale. Ma ora corriamo il reale rischio di tornare a condizioni di diffusa povertà, non solo per la crescita demografica, amplificata dalla globalizzazione che fonde i diversi mercati del lavoro, ma anche per lo sviluppo tecnologico che distrugge molti lavori. Che il tanto temuto (chi ci pagherà le pensioni?) calo demografico sia, assieme ad una seria politica di redistribuzione, invece un’auspicabile via per salvaguardare sia l'ambiente che il benessere diffuso e, con esso, la pace sociale e la democrazia?
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