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Manifesto per la rinascita di una nazione. Scienza, la frontiera infinita
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Manifesto per la rinascita di una nazione. Scienza, la frontiera infinita - Vannevar Bush - copertina
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Manifesto per la rinascita di una nazione. Scienza, la frontiera infinita

Descrizione


Nel novembre 1944, nel pieno della guerra, il Presidente degli Stati Uniti Franklin D. Roosevelt pose al proprio consigliere scientifico, Vannevar Bush, una domanda cruciale: in che modo potremo, a guerra conclusa, sfruttare al meglio lo sforzo che stiamo sostenendo nella ricerca scientifica a scopo bellico e tradurlo in benessere per la nazione? Questo libro è la risposta scritta da Bush e rappresenta di fatto un programma politico e culturale per la ripresa economica, civile e sociale di una nazióne uscita da quindici anni di disastrosa crisi economica e cinque di guerra massacrante. In 70 pagine, chiare e secche, Vannevar Bush sottolinea i vantaggi economici e le ricadute positive della ricerca scientifica, chiedendo di finanziare la ricerca fondamentale, di selezionare le future generazioni di scienziati unicamente sulla base del merito e di diversificare la ricerca il più possibile. Una lezione ancora straordinariamente attuale, anche per un paese complicato e problematico come il nostro.
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Dettagli

2
2013
10 ottobre 2013
150 p., Brossura
9788833924502

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In questa lettera al presidente Roosevelt, Bush espone come la ricerca scientifica si la principale leva per la crescita intellettuale ed economica di una nazione

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Voce della critica

Vannevar Bush, Manifesto per la rinascita di una nazione. Scienza, la frontiera infinita, ed. orig. 2012, trad. dall'inglese di Benedetta Antonielli d'Oulx, introd. di Pietro Greco, pp. 152, € 12, Bollati Boringhieri, Torino 2013   13 Febbraio 1965, Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano. All'annuncio di un'imminente riduzione dei finanziamenti statunitensi alla ricerca biologica e medica dei laboratori europei, i ricercatori italiani si mobilitano. Il comitato promotore dell'iniziativa, presieduto e coordinato dall'allora segretario del Mario Negri, Alfredo Leonardi, comprende i nomi migliori della biomedicina italiana: tra gli altri, Adriano Buzzati-Traverso, Luca Cavalli-Sforza, Ruggero Ceppellini, Silvio Garattini. Forte dell'adesione di ben sessantasette ricercatori, il comitato avvia un'inchiesta interna che fa emergere un dato chiaro e preoccupante: i venticinque laboratori italiani che partecipano alla mobilitazione ricevono dagli Stati Uniti più del 60 per cento dei propri fondi di ricerca. La riunione del 13 febbraio culmina nell'approvazione all'unanimità di una mozione – indirizzata al presidente della Repubblica, ai presidenti delle due Camere, a tutti i ministri, al presidente del Cnr, ai presidenti dei comitati di biologia e medicina e di scienze agrarie del Cnr – nella quale si denuncia il fatto che le ricerche biologiche e mediche siano state "illogicamente trascurate" nell'assegnazione dei fondi nazionali e si ribadisce la necessità non soltanto di aumentare gli stanziamenti complessivi ma anche di prevedere la progressiva sostituzione dei fondi stranieri con quelli nazionali. I metodi di erogazione dei fondi italiani adottati dal Cnr vengono giudicati "insoddisfacenti". Il comitato del Cnr per la biologia e la medicina – afferma a chiare lettere la mozione ‒ non ha spesso competenza nel giudicare il valore e il merito dei vari progetti di ricerca. Tra il Cnr e il ricercatore non vi è alcuna possibilità di dialogo: "Il ricercatore non viene mai, in generale, ascoltato personalmente, non gli vengono mai chiesti schiarimenti e approfondimenti, il suo laboratorio non viene ispezionato, e la condanna di un progetto è sempre senza appello". Il Cnr non dispone di "funzionari specifici a tempo pieno che curino direttamente i rapporti con i ricercatori, ispezionando i laboratori, e si rendano conto delle disponibilità e delle esigenze di apparecchiature e seguano il progresso dei programmi di ricerche riferendone al sottocomitato corrispondente". Senza contare la prassi delle elemosine, del "dare uno o due quando si chiede dieci". Di fronte alla gravità di questa situazione, il comitato del Mario Negri invoca una serie di misure strutturali di riforma: lo sdoppiamento del comitato Cnr in uno per la biologia e uno per la medicina e la costituzione di "sottocomitati ristretti di esperti in specifiche materie"; l'introduzione di una procedura di ascolto diretto del ricercatore, con interventi limitati a 10-15 minuti; l'individuazione di progetti prioritari, completamente finanziati dal Cnr; e, da ultimo, la nomina di consulenti a tempo pieno, distaccati per non più di due anni dai rispettivi enti di appartenenza. Il modello che i ricercatori italiani hanno in mente è quello statunitense: la National Science Foundation, la Rockefeller Foundation, i National Institutes of Health (Nih). E infatti non a caso il comitato del Mario Negri affianca alle pressioni sul piano interno una parallela azione nei confronti del governo americano, inviando una lettera, firmata da ottantadue ricercatori italiani, al presidente degli Stati Uniti Lyndon B. Johnson. Un'ultima richiesta di aiuto, che fa il giro del mondo sulle pagine di "Science", nel maggio 1965. Perché partire da questo episodio circoscritto della metà degli anni sessanta per riflettere sulla traduzione e pubblicazione in Italia di Science: The Endless Frontier, il rapporto del luglio 1945 sui nessi tra ricerca scientifica pura, ordine politico e sviluppo economico, redatto dall'ingegnere e matematico Vannevar Bush, direttore dell'Office of Scientific Research and Development e consigliere scientifico di Franklin D. Roosevelt? Per due motivi, essenzialmente. In primo luogo, The Endless Frontier non ha avuto soltanto un ruolo decisivo nella definizione dei rapporti tra politica e ricerca scientifica all'interno degli Stati Uniti, ma ha contribuito a strutturare il ruolo della scienza pura come cardine della politica estera statunitense nei primi due decenni successivi alla fine della seconda guerra mondiale. L'investimento nella ricerca scientifica e tecnologica di base è stato infatti un fondamentale strumento della costruzione dell'egemonia statunitense in Europa occidentale negli anni della guerra fredda. Figure come quella di Vannevar Bush – cui potremmo affiancare, in questa prospettiva, Warren Weaver, Shepard Stone, Isidor I. Rabi, James Killian, e istituzioni come la Rockefeller e la Ford Foundation, il Nato Science Committee, i National Institutes of Health – vanno considerate tra i principali architetti di quel processo di "americanizzazione" delle pratiche scientifiche nei campi della fisica, della biologia e della medicina che ha alimentato la reintegrazione dell'Europea occidentale all'interno dell'impero "informale" statunitense. Ricostruire e riconfigurare un partner europeo non soltanto affidabile sul piano politico e ideologico, ma anche credibile e avanzato dal punto di vista scientifico e tecnologico, costituiva una prerogativa essenziale nella competizione internazionale con l'Unione Sovietica. Questo disegno egemonico statunitense non è stato imposto dall'alto, ma è stato condiviso, non senza contraddizioni e conflitti, da élites scientifiche e politiche europee consapevoli dei ritardi accumulati dal Vecchio continente nel periodo interbellico e alla disperata ricerca di finanziamenti, ma anche accomunate da un sistema di valori liberal-democratico perfettamente veicolato dalla scienza pura, intesa come sapere critico demilitarizzato, universalistico ed epistemologicamente ostile all'autorità. In questo quadro, le élites scientifiche italiane, negli anni cinquanta e sessanta, hanno esercitato un ruolo fondamentale non soltanto come passive destinatarie di cospicui finanziamenti dagli Stati Uniti, ma soprattutto come attive protagoniste di strategie transatlantiche di modernizzazione della ricerca scientifica in Italia, incentrate sull'adozione del modello di riferimento americano. Alla luce della coproduzione dell'egemonia statunitense negli anni della guerra fredda, la riproposizione del rapporto Bush come "manifesto per la rinascita di una nazione" – quella italiana, s'intende – si configura, nella sua dimensione anacronistica, come un interessante caso di uso pubblico della storia. Nella sua introduzione, Pietro Greco individua in The Endless Frontier la ricetta per far fronte al declino nostrano: "Basta seguire in maniera creativa i 15 punti focali del 'rapporto Bush' e potremo creare le premesse giuste per il cambio di paradigma economico. Rispetto all'America del 1945 abbiamo uno svantaggio: non abbiamo un personaggio come Vannevar Bush e non abbiamo, soprattutto, interlocutori come Roosevelt e Truman, come Kilgore e Steelman". Per quanto condivisibile dal punto di vista dell'impegno politico, la trasformazione del "rapporto Bush" in un "manifesto per la rinascita" economica dell'Italia finisce per destoricizzare il documento del 1945 proprio nel momento in cui se ne cura la traduzione e la presentazione al pubblico italiano. A mancare oggi non sono soltanto infatti i Vannevar Bush o i Franklin D. Roosevelt. Manca anche ‒ particolare non del tutto trascurabile ‒ la guerra fredda, e con essa la centralità dei finanziamenti alla ricerca pura come base strutturale di un sistema egemonico di relazioni internazionali. Come dimostra, fra i tanti esempi possibili, la mobilitazione del Mario Negri del 1965 da cui abbiamo preso le mosse, la politica della ricerca scientifica in Italia nel secondo dopoguerra è stata influenzata e plasmata dalla guerra fredda e dall'ineludibile rapporto con gli Stati Uniti. E da questo legame ha tratto risorse culturali, economiche e politiche. Ne è scaturita una stagione di intensa modernizzazione della ricerca italiana, la quale tuttavia non ha retto al cambiamento del contesto politico ed economico, tanto nazionale quanto internazionale, degli anni settanta. È troppo tardi, verrebbe da dire, per riproporre ora, tout court, il "modello Bush" come allegato a una lettera al presidente del Consiglio italiano. Per il semplice motivo che questo rapporto, nelle sue linee ideali e come strumento della strategia egemonica statunitense, ha già operato nel nostro paese, in una precisa fase storica. L'occasione, quindi, si è già presentata, ma è tramontata con la fine degli anni sessanta. Ben venga, dunque, la traduzione di The Endless Frontier, documento cruciale nella storia del Novecento. Ma lasciamolo al suo tempo, e cerchiamo di capire davvero le cause, i tempi e i luoghi specifici del nostro declino. Soltanto da un'autobiografia della nazione storiograficamente sincera potrà infatti scaturire un modello non anacronistico di ripresa.   Francesco Cassata

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