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Non bisogna farsi influenzare dal titolo, ma piuttosto dalla copertina: in questo libro non si parla di estate e vacanze all’insegna del divertimento, ma di introspezione, morte e malinconia. Max Morden ritorna al luogo di villeggiatura della sua infanzia e racconta muovendosi tra passato e presente la relazione con la moglie parallelamente a episodi delle sue vacanze estive da preadolescente. Anche se a volte il senso di oppressione e profonda tristezza sommato all’uso di termini inconsueti fa risultare la lettura pesante, John Banville è in grado di catturare il lettore immergendolo nei pensieri del protagonista, tanto che sembra quasi di respirare l’aria fresca e salmastra che Max descrive.
L'autore tratta i temi piu' importanti della vita umana ( il primo innamoramento, la malattia, la morte…..). La scrittura e' magistrale.
io l'ho trovato un romanzo molto raffinato ed elegante, con riferimenti letterari colti e costruito su un leggerissimo equilibrio delicato e quasi sfumato, come il ricordo che col presente si confonde, come il mito che inficia la realtà. Un percorso nella memoria per ritrovarsi e per riscriversi, per sentire la vita dentro un mondo fatto non di presenze, ma di assenze. secondo me davvero bellissimo, forse perchè così classico nella sua impostazione.
Recensioni
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Era stato accolto con una certa sorpresa, lo scorso ottobre, l'annuncio della vittoria del Man Booker Prize da parte di The Sea, il quattordicesimo romanzo dell'irlandese John Banville, direttore delle pagine culturali dell'"Irish Times" e scrittore di lungo corso, ma nell'occasione meno accreditato di altri autori, forse più mediaticamente spendibili, entrati nella cinquina finale, come Zadie Smith o Kazuo Ishiguro. Ora, in questa traduzione di Eva Kampmann, anche il lettore italiano può misurare la bontà della scelta dei giurati inglesi che hanno visto e premiato in Banville soprattutto un maestro di stile: "a master at the top of his game", come è stato definito, e "one of the great fictional stylists of our time".
La storia, narrata in prima persona, è quella di Max Morden, uno storico dell'arte alle prese con il dolore per la recente scomparsa della moglie, morta di cancro, e con le dissonanze psicologiche provocate dai ricordi che interstizialmente si accavallano contestualmente all'elaborazione di questo lutto. Il catalizzatore topografico è la villa I Cedri, a Ballyless, una fittizia località di villeggiatura sulla costa irlandese dove Morden ritorna dopo anni. Da bambino e adolescente aveva infatti lì trascorso numerose estati assieme ai genitori e soprattutto al cospetto dei Grace, una famiglia di "semi-divinità" altoborghesi che avevano accolto Max all'interno del loro regno fatto di sottili opposizioni psicologiche e di forti cariche sensuali, dove i due poli di attrazione diventano da principio la madre Connie e successivamente la figlia Chloe, eternamente accompagnata dall'inquietante fratello gemello Myles, muto dalla nascita.
Il romanzo si snoda attraverso l'alternarsi di diversi tempi e situazioni narrative, focalizzati attorno alle figure che fanno da coagulo ai ricordi di Morden, un narratore diegetico letterariamente ultraconsapevole e disposto a squadernare le proprie debolezze e le proprie angosce agendo con una tale forza centripeta (sembra uno Zeno Cosini in minore senza troppa autoironia) da schiacciare e lasciare in ombra la caratterizzazione di altri personaggi topici, come la moglie Anna o la figlia Claire, che sembrano statuine immobili all'interno della piccola stanza psicologica, claustrofobicamente impermeabile, che Morden percorre nervosamente con il suo metronomo linguistico.
Pur rimanendo per alcuni versi in ambiti congruenti (il protagonista è uno storico dell'arte come Victor Maskell, la spia protagonista di The Untouchable, 1997), con Morden Banville non aggiunge un'ulteriore figura di individuo scisso e parapsicotico al repertorio dei suoi romanzi precedenti oltre a Manskell, ricordiamo Freddie Montgomery della trilogia The book of evidence (1989), Ghosts (1993) e Athena (1995) , ma esplora territori psicologici più "normali", più a contatto con debolezze e ego(t)ismi quotidiani, misurati tutti sull'incapacità di un vero coinvolgimento emotivo e di un'autentica generosità relazionale.
Il mare può essere per altri versi letto come un libro sui riti di passaggio: da una parte, l'entrata in un'adolescenza affollata di desideri e mitografie e, dall'altra, l'approdo alla solitudine della vecchiaia da parte di un personaggio che a tratti non sembra essere mai diventato veramente adulto, come l'alternanza narrativa fra i due momenti storici del racconto, il presente dei ricordi e il passato dell'esperienza adolescenziale, non fa che confermare. L'immagine di un mondo dell'infanzia popolato da dei è letterariamente felice e illuminante ancorché venga abbandonata a metà strada dopo avere affidato a ciascun componente della famiglia Grace il proprio nume tutelare o immagine metaforica di riferimento (un satiro, una menade, il dio Pan). La scena cruciale del libro, che riguarda i gemelli Chloe e Myles, manca inoltre di autentico pathos: Banville non riesce a costruirvi un vero e proprio climax narrativo, ma si appoggia a una distanza emozionale che in qualche modo svuota di intensità l'evento attorno al quale dovrebbe costruirsi il grande vuoto, la grande dimensione della perdita e della morte che attraversa tutto il libro.
Questo è infatti un romanzo sulla disperazione della fragilità umana e sulla materia della morte. Sulla decomposizione organica del corpo, presentato costantemente nei suoi aspetti insidiosi e sghembi, presago di un prossimo e sempre imminente disfacimento. È anche un romanzo sulla consistenza materiale e immateriale dei ricordi, sui fantasmi depositati nella memoria, che crescono come immagini totemiche, come punti di appoggio per fondare la precaria costruzione identitaria. Sullo sfondo, il mare, l'oceano irlandese, come l'immacolata e leopardiana indifferenza della natura, intrappolata nella sorda ciclicità del respiro delle maree, e dell'alternanza fra la vita e la morte.
A parte qualche discutibile scelta lessicale, la traduzione appare molto precisa e accurata, anche se di fatto appiattisce l'estrema sofisticazione stilistica di Banville, che offre ai lettori inglesi la sua solita prosa iperstilizzata, intrisa di troppo preziosi latinismi (velutinous, caduceus, cinereal, flocculent), e costruita attraverso un ritmo poetico fatto di improvvise contrazioni e di costanti espansioni aggettivali che, come spesso accade in questi casi, si annacqua notevolmente nella versione italiana, rendendo di fatto meno interessante la lettura del romanzo. D'altro canto, questo permette anche di smussare alcuni passaggi eccessivamente stilizzati e magniloquenti che rendono a tratti i dialoghi poco plausibili e alcune pagine letterariamente narcisistiche in eccesso. Lo stile, per cui Banville è stato sia elogiato che criticato, alla fine gioca a suo sfavore, tendendo a dissolvere qualsiasi vera tensione narrativa, aspetto che rimane uno dei punti deboli di questa sua ultima fatica.
Pierpaolo Antonello
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