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recensione di Pessini, A., L'Indice 1998, n. 4
Salbunda, isola caraibica immaginaria che non nasconde tuttavia svariate analogie con l'Haiti degli anni sessanta, accoglie dopo anni di assenza un uomo che si addentra in un viaggio a ritroso nella propria infanzia e tenta di ricostruire, attraverso le poche notizie che la sua memoria gli fornisce e con l'ausilio del sogno e dell'immaginario, l'enigmatica esistenza di Faustino, uno dei numerosi lustrascarpe che popolano il lungomare di Porto Fango. Per ritrovare Faustino, quest'uomo, di cui non ci viene mai fornito il nome, richiama le istantanee che, da bambino, nel cortile della nonna a Pont d'Avignon, coglieva dal retrovisore di una vecchia Peugeot 304. Da questo vecchio catorcio abbandonato contempla i vari avvenimenti della vita quotidiana, le partite di calcio della squadra del cuore seguite animatamente da tutto il quartiere, le scommesse sui combattimenti di galli, le attese di vincite alla lotteria che ritmano lo scorrere dei giorni in questo angolo dei bassifondi di Salbunda ove la violenza irrompe, a volte con forza, mostrando il volto implacabile del potere che inscena fucilazioni di gruppo.
L'esistenza di Faustino scorre così, fra momenti di quiete e felicità, fatti di passeggiate a braccetto con Marie lungo il molo, di uscite il sabato sera per vedere il film programmato dall'unica televisione che troneggia sulla piazza pubblica e momenti di sconforto e disperazione legati alla perdita del lavoro, alla vergogna di dover vivere alle spalle della donna amata. L'arrivo di un figlio costringerà Marie al ritorno verso la campagna che un tempo aveva lasciato, piena di speranze; un ritorno che Faustino dal canto suo rifiuta, perché segno tangibile del proprio fallimento. Rimane dunque in città dove, naufrago di un diluvio, approda nel cortile di Pont d'Avignon, vero e proprio teatrino della fauna umana di Porto Fango, e lì si cimenta nella nuova professione di lustrascarpe. Il ricordo del bambino inizia qui, per poi dissolversi quando arriverà anche per lui il momento di lasciare il quartiere e di affrontare la vita senza la mano di Faustino che gli ha fatto da guida.
Louis-Philippe Dalembert propone con questo suo primo romanzo dai toni forti e seducenti una riflessione sul ruolo della memoria, quella individuale che trova spesso nell'infanzia il suo humus privilegiato, ma anche quella collettiva del popolo haitiano, di cui tutti sono partecipi, in cui tutti si ritrovano. Il racconto di Dalembert, al di là delle immagini e delle storie che ci propone, documenta la fatica del ricordare in una terra calpestata nei suoi diritti e nella sua natura, definitivamente ferita e trasformata. Così come il protagonista del romanzo ormai adulto non ritrova le tracce di Faustino, i brandelli di ricordi che si mescolano nella pagina scritta rimangono allo stato di frammenti, non si ricompongono in un insieme ma evidenziano le parti mancanti. Questi vuoti della memoria, queste sospensioni del ricordo, vengono quindi colmati dall'immaginario, dal sogno; la storia di Faustino deve comunque essere raccontata o reinventata. Non è forse questo il ruolo dello scrittore delle Antille e di Haiti in particolare, colmare le "béances" della storia di un popolo scritta dall'Altro, dal Bianco, redatta con lunghi silenzi da recuperare?
Leggiamo dunque, con questa storia dal titolo intrigante preso a prestito da un vecchio proverbio di Haiti, un romanzo della memoria, ma anche un romanzo dell'erranza in un microcosmo insulare che illustra la tragedia di un popolo costretto dalla fame o dal regime a sradicarsi, ad abbandonare la campagna per la città, a lasciare Haiti per terre sconosciute al di là del mare, a sperimentare l'angoscia della partenza e l'incognita del ritorno, se ritorno vi è.
Se con l'uso di tematiche come la memoria e l'erranza Dalembert si inserisce perfettamente nel panorama della letteratura haitiana contemporanea, prodotta in larga parte fuori dai confini dell'isola, le strutture narrative del suo romanzo mostrano la volontà di recuperare quella tradizione orale del "conteur" della piantagione, che fu la prima espressione di libertà e di creatività dello schiavo. A questa tradizione appartiene la molteplicità delle storie che si alternano, spesso introdotte da una voce che interpella il lettore/uditore coinvolgendolo direttamente nelle vicende narrate. A questo mondo della piantagione rimanda anche una concezione del tempo non lineare, acronologico, dove passato e presente spesso si confondono e si mescolano, procurando, alla lettura, un'inebriante impressione di vertigine.
Se "la matita del Buon Dio non ha la gomma", se non si può cancellare ciò che è stato, nulla impedisce allo scrittore di rubare a Dio la matita e di ricomporre un universo costantemente in bilico fra onirico, reale e immaginario.
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