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recensione di Morello, R., L'Indice 1995, n. 2
recensione pubblicata per l'edizione del 1994
La pubblicazione della "Medea" di Grillparzer ripropone un grande testo teatrale ben noto agli studiosi, ma assai poco conosciuto dal pubblico italiano. Scritto nel 1818-20 e rappresentata per la prima volta il 27 marzo 1821 al Burgtheater di Vienna, come terza parte di una trilogia dedicata agli argonauti dal titolo "Il vello d'oro", la tragedia di Medea aveva impegnato a lungo anche il poeta e drammaturgo austriaco, per il quale anzi la figura di Medea si identifica con la stessa musa ispiratrice del teatro drammatico 'tout court'. La "Medea" di Grillparzer fonde, come spesso è stato detto, mito e psicologia, dimensione archetipica e prosa borghese, compostezza classica e sottigliezza psicologica. È il dramma dell'inconciliabile distanza tra femminile e maschile, della solitudine e della diversità - doppiamente sofferta dalla protagonista, moglie ripudiata e straniera, in una società chiusa e intollerante come quella greca. Grillparzer si mostra, come sempre, profondamente pessimista sulla reale possibilità da parte dell'uomo di superare i propri limiti. Ogni sforzo di Medea per assumere una nuova identità è destinato a fallire, anzi il conflitto tragico scaturisce proprio dal suo tentativo di obliare la prima forma di fedeltà, quella verso se stessi, il proprio mondo di origine, i sentimenti più veri e profondi che tale appartenenza comporta e che non possono mai essere impunemente rimossi, conculcati o negati. Di fronte all'eroina ingiustamente accusata di rozzezza, magia, malvagità si erge il nitore raggelante del mondo greco che la disprezza - persino nel nome! - respingendola brutalmente da sé. Ci sono l'egoismo e la violenza, mascherati da contegno e ragion di stato, del re Creonte e, soprattutto, la meschinità e vanità virile di Giasone la cui patina eroica viene impietosamente smascherata nella sua disumanità, facendo risaltare ancora di più l'autentica grandezza della protagonista.
"Un po' Grazia e un po' Menade", Medea è simile a Pentesilea ma, anziché soccombere in un'apoteosi di amore e morte, è condannata a sopravvivere all'uccisione dei figli. Animata da una forza che la spinge a revocare quella vita che da lei ha avuto origine, ella incarna i diritti primordiali del matriarcato disperatamente soccombente di fronte all'affermazione storica del patriarcato greco. Una figura complessa che rivela gli aspetti più inquietanti e irrisolti della sofferta psicologia di Grillparzer, il cui problematico rapporto tra vita e scrittura ripropone gli angosciosi interrogativi di Kleist, anticipando nel contempo quelli di Kafka.
Di "Medea" esistevano sinora tre versioni italiane. Due piuttosto antiche - la traduzione in versi di Andrea Maffei (Firenze 1879) e quella gloriosa di Vincenzo Errante (Lanciano 1919) - e una più recente, la traduzione in prosa di Maria Grazia Amoretti nella collana dei classici Utet (Torino 1983). Questa edizione conteneva la traduzione dell'intera trilogia, mentre l'edizione attuale presenta (ma con testo a fronte) la sola "Medea", nella stessa versione di Magris che il Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia sta rappresentando proprio in questi mesi nei teatri italiani.
La grandezza e modernità di Grillparzer sono fuori discussione, ma la sua fruizione da parte del pubblico appare condizionata dalla qualità delle traduzioni disponibili. La difficoltà di un testo come "Medea" ad esempio sta nella particolare stratificazione di un linguaggio che riunisce registro alto e sublime da un lato e quotidiano dall'altro, "con lampi di tragicità mitica irreparabilmente perduta per il mondo borghese e cadenze grigie da scene di matrimonio squallidamente contemporaneo" (Magris). Tale duplicità del testo originale, che accosta due dimensioni dissonanti, senza risolverle in una sintesi superiore, è quanto in genere le vecchie traduzioni tentavano a cancellare, eliminando ogni asperità e appiattendo il linguaggio di Grillparzer su un tono aulico e paludato, ma soprattutto troppo armonicamente levigato. Per rendere giustizia all'originale occorre invece conservare le dissonanze. Le due versioni più recenti - anche se in misura diversa, più timidamente la Amoretti, con maggiore decisione Magris - si muovono nel senso di una resa più fedele dell'originale. La traduzione di Magris inoltre, improntata a un'estrema chiarezza, scioglie i nodi del testo privilegiando l'immediata comprensione, e risulta più efficace sul piano teatrale rispetto a quella della Amoretti, condotta invece con l'ottica e la sensibilità del lettore colto di un testo poetico. Ecco un esempio tra i molti.
"Tat es und lebt! Entsetzlich! / So viel wei ich und so viel ist mir klar: / Unrecht erduld'ich nicht ungestraft!"(vv. 1279-81)
"Fece questo e 'vive'! Orrendo ! / Tanto io so e tanto mi è chiaro: / non tollero impunemente l'ingiustizia!" (trad. Amoretti)
"Ha fatto questo e continua a vivere! Che orrore! / Io so una cosa sola, che mi è ben chiara: / non sopporto, non sopporterò ingiustizie senza reagire!" (trad. Magris).
Le parole di Medea mantengono nella nuova traduzione la loro potente suggestione, quel fragore di risacca che ricrea talvolta il prodigio del verso epico così ben descritto da Adorno, un "mugghiare in cui l'univoco e il solido si incontrano con l'ambiguo e il fluente proprio per separarsene". Basta leggere il famoso monologo del quarto atto ("Die Nacht bricht ein...") "Irrompe la notte e salgono le stelle, raggiando giù sulla terra la loro mite, dolce luce. Le stesse stelle, oggi, di ieri, come se tutto, oggi, fosse come ieri... invece c'è un abisso immenso, come quello tra felicità e rovina". Il grigiore di un ménage coniugale soffocante viene dissipato, l'abisso tragico si spalanca in tutta la sua ineluttabile solennità, e gli occhi della protagonista fissano affascinati quella profondità quasi con sollievo. "Se la racconto a me stessa, la fiaba della mia vita, mi sembra che sia un altro a parlare..."
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