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Le aspettative era decisamente alte, ma la raccolta ha smontato l'entusiasmo. Niente di che, sia dal punto di vista grafico sia da quello contenutistico. Peccato!
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“Fico, devastiamoci! Torna il fumetto underground”.
Psichedelica. Surreale. La storia di due antieroi in testa alle classifiche del New York Times.
Prima che Peppa Pig arrivasse a colonizzare l'immaginario infantile di mezzo pianeta, in Inghilterra c'era Meg & Mog. Che non era un cartone TV (lo sarebbe diventato solo nel 2003), ma una serie di libri per bambini anni '70 con protagonisti una strega (Meg), il suo gatto (Mog) e un gufo chiamato semplicemente Owl. Era scritta e disegnata dalla coppia Helen Nicoll/Jan Pienkowski, e ai tempi non mi risulta abbia trovato diffusione in Italia; ma in Inghilterra andò subito fortissimo, guadagnandosi sul campo lo status di classico.
Come non pochi prodotti per l'infanzia d'Oltremanica, Meg & Mog emanava una sottile e un po' stranita aria psichedelica: i disegni stilizzati, i colori sgargianti, le atmosfere sospese, parevano provenire direttamente da qualche reduce stonato della Summer of Love. Chi se ne frega se in realtà la Nicoll era una tranquilla ex autrice BBC sposata a un interior designer dai borghesissimi gusti neovittoriani: in Meg & Mog c'era chiaramente qualcosa che non tornava, o almeno così deve aver pensato il piccolo Simon Hanselmann quando, nell'Australia degli anni '80, si ritrovò a leggere i volumetti che continuavano a essere stampati nell'ex madrepatria.
Certo, da molti punti di vista l'infanzia di Hanselmann era – diciamo così – compromessa in partenza: sua madre era eroinomane, suo padre un biker scappato di casa, e lui un bambino introverso e circondato da bulli. Messa in questi termini si capisce perché, una volta reinventatosi fumettista fai-da-te, abbia deciso di riprendere Meg e Mog, aggiungere una G a entrambi per evitare problemi di copyright e trasformarli in una coppia di tossici degenerati che passano il tempo a sottoporre Owl a tutte le peggiori sevizie immaginabili.
A partire dal 2010, Hanselmann comincia quindi a disegnare una serie di strisce (poi raccolte su Tumblr) initolate Megahex, in cui i personaggi originariamente inventati dalla Nicoll si tramutano in una coppia di slacker depressi e scazzati: le trame sono un'indigesta – ma divertente – sequenza di bassezze morali e non di rado fisiche, ambientate in una provincia annoiata e immiserita; le battute sono una roba del tipo “Lupo Mannaro Jones si è affettato le palle – Fico, devastiamoci”; l'aria che si respira è un misto del film Gummo (di Harmony Korine, 1997. Ndr), trash movie postadolescenziale e il primo Matt Groening dei Simpson, quello di Life in Hell, per capirci.
A sorpresa, Megahex diventa un piccolo successo underground, specie negli USA: Megg e Mogg finiscono sulle pagine di VICE, conquistano definitivamente i piani alti delle gerarchie hip, e nel frattempo Fantagraphics raccoglie le tavole in un volume che finisce pure nella Best Sellers List del New York Times. Adesso, Coconino traduce Megahex in italiano. E credetemi: si tratta a suo modo in un piccolo evento.
Nonostante l'eccentrica provenienza geografica di Hanselmann, Megahex è prima di tutto l'ultimo esito di quell'estetica underground che, in ambito fumettistico, si è sviluppata negli USA per tutto il corso degli anni 2000. Principali responsabili di quest'estetica furono i fumettisti di Providence raccolti attorno allo squat/factory Fort Thunder, e a seguire un editore di culto come il defunto Picturebox. Basta guardare il modo in cui Megg, Mogg e soci sono disegnati: il riferimento principale è il collettivo Paper Rad e in particolar modo il suo esponente più noto, quel Ben Jones che a sua volta trasformò un altro feticcio dell'infanzia – nel suo caso Garfield – in un improbabile antieroe stonato. Ma a sfogliare le pagine di Megahex, vengono alla mente anche altri classici da noi semi-sconosciuti come l'esilarante 1-800 Mice di Matthew Thurber, e l'onirico Powr Mastrs di C.F. Tutti nomi che Hanselmann per primo rivendica come influenze, intendiamoci.
Quest'estetica psichedelica, surreale e (perché no?) “sperimentale”, ha preso a esercitare un'influenza sempre maggiore nel circuito degli indie-comics, non solo americani. Che Megahex sia riuscito a conquistare le classifiche del New York Times potrà apparire bizzarro, ma era comunque nell'aria: diciamo che aspettavamo solo il titolo giusto.
In Italia però – se si escludono casi come il giro Ratigher/Pira & co, o su un altro versante Canicola – la scuola fumettistica sviluppatasi nei sottoboschi americani per tutti gli ultimi quindici anni, resta ancora un fenomeno semiclandestino e in larga parte ignorato. Da questo punto di vista, la lettura di Megahex potrebbe veramente spalancarvi le porte di un mondo intero. E poi è un fumetto divertentissimo e assieme tragico, scostante ma sentimentale, scorretto ma con una sua indecifrabile poesia. Rischia sul serio di finire tra i classici. Come l'originale targato Nicoll & Pienkowski, già.
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