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Memoria. Vol. 19: Il movimento femminista negli anni '70.
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1987
246 p.
9788870112887

Voce della critica


recensione di Galeotti, A.E., L'Indice 1988, n. 5

La proposta di "Memoria" di ripercorrere il movimento femminista dello scorso decennio pare quanto mai opportuna, non solo perché è tempo, dopo dieci anni, di disporre di una mappa delle articolazioni interne e della molteplicità delle posizioni per poter giungere a uno sguardo d'insieme e a un esame in profondità di un'esperienza tanto ricca e ancora emotivamente viva. Oltre a ciò, ci sono due ragioni importanti per intraprendere e a cui rivolgere una simile riflessione: la prima concerne le conseguenze, attese e non, che il femminismo anni '70 ha prodotto nella società italiana nelle risorse che le donne dei vari ceti e delle diverse aree geografiche si sono ritrovate in mano (sia in termini di tutela che in termini di opportunità) e nel modo in cui queste hanno inciso sulle aspettative e sui piani di vita. La seconda riguarda invece la crisi del movimento, nella sua forma di massa e politica, sopraggiunta verso la fine del decennio, che rende a mio avviso ineludibile una riflessione critica sulle ragioni che hanno trasformato il femminismo da movimento capace di grandi mobilitazioni collettive, in presenza diffusa, professionalizzata o ripiegata su una riflessione teorica.
L'ipotesi di lavoro preannunciata nell'editoriale del fascicolo sembra però muoversi in un'altra direzione. Nonostante venga affermata l'esigenza di "travalicare la trasmissione orale" e di procedere a una ricostruzione per le nuove generazioni, il terreno prescelto non è quello di una storia politica, n‚ di una storia intellettuale, bensì quello delle biografie e delle esperienze, del "vissuto" insomma, di cui, si sottolinea, nessuna è in grado di "far ordine" tra i temi, i gruppi e i percorsi individuali e collettivi. Si preannuncia quindi, e come scelta deliberata, l'accantonamento di propositi interpretativi, di tentativi di sintesi o bilanci d'insieme, percepiti come gabbie deformanti e riduttive della realtà. In ciò si sente quello che chiamerei il "paradosso della rappresentanza" che ha percorso tutto il movimento fin dalle origini e sui cui è utile un chiarimento. Poiché il femminismo, almeno nelle sue espressioni 'radical', ha rifiutato le forme tradizionali della politica, anche rivoluzionaria, della delega e della rappresentanza per liberare la soggettività femminile tradizionalmente "muta", ecco che il proprio vissuto diventa l'unico oggetto non controverso di parola. Ma se l'analisi del vissuto ha avuto un significato di rottura, di disvelamento dell'invisibilità in una prima fase, quando lo slogan "il personale è politico" designava in modo saliente la contropoliticità del femminismo, oggi in un clima sociale e culturale mutato, condanna solo all'irrilevanza. Che poi una ricostruzione complessiva incarni sempre un punto di vista specifico e condizionato e non rappresenti mai il resoconto completo e obiettivo della realtà indagata non deve costituire un problema, alla luce di criteri epistemologici largamente condivisi; l'importante è che la ricostruzione sia aperta alle discussioni e alle controargomentazioni del pubblico.
Certo, la difficoltà di una ricomposizione critica a distanza ancora ravvicinata nel tempo è comprensibile. Ma allora perché non privilegiare l'aspetto informativo-documentario della ricostruzione, che avrebbe il vantaggio di mettere a disposizione del pubblico un materiale ricchissimo, poco conosciuto e non facilmente reperibile? Invece, nei numerosi contributi al fascicolo, alcuni dei quali molto pregevoli, in cui tutte o quasi le protagoniste di quegli anni hanno voce, l'informazione è di regola frammentaria, i dati spesso casuali e incompleti così che la lettrice o il lettore rimane disorientata/o rispetto ai fatti, alle sigle, ai luoghi.
A questo punto ci si chiede chi siano le destinatarie e i lettori potenziali di questo fascicolo, se non coloro che a quella esperienza hanno partecipato, magari, come chi scrive, da collettivi periferici e non trainanti. In breve, mi sembra che la scelta di far parlare il vissuto, ancora una volta, dopo dieci anni, fallisca un obiettivo primario di questa impresa collettiva, cioè la trasmissione alle generazioni più giovani (e perché no, anche a studiose/i stranieri/i) di che cosa è stato e di che materiali si è nutrito il femminismo italiano degli anni '70, condannando invece lo sforzo della memoria a un consumo interno e circolare. Al di là di queste osservazioni di metodo sull'impresa nel suo complesso alcuni saggi sono poi utili e perspicui relativamente all'oggetto specifico della loro analisi. Cominciando dal fondo, utile e ben fatta è la sezione "biblioteca", che raggruppa una serie di riletture di alcuni testi chiave di quegli anni (come la "Mistica della femminilità" di Betty Friedan, "Donne è bello" del gruppo Anabasi e "La coscienza di sfruttata"di L. Abbà et al.), condotte con rigore e intelligenza da G. Bonacchi, A. Calabrò, R. Caccamo, V. Chiurlotto, M.G. Minetti, C. Saraceno e S. Sapegno. Tra i saggi della prima parte, "la politica", interessante il contributo di Yasmine Ergas, che propone una tesi sulla specificità del femminismo italiano sia rispetto al movimento internazionale sia rispetto agli altri movimenti collettivi che negli anni '70 hanno caratterizzato la scena politica del nostro paese. Seppur di stile molto diverso, il saggio di Mariella Gramaglia, sul faticoso rapporto tra gruppi extraparlamentari e femminismo, e in particolare, sul caso di Lotta Continua, avanza un'ipotesi suggestiva sul mito giovanilistico che avrebbe caratterizzato la militanza extraparlamentare e il rifiuto del problema della morte, ripreso invece dal femminismo, che varrebbe la pena di approfondire. Passando ad un'altra sezione del fascicolo, "le parole chiave", molto apprezzabile il saggio di Valeria Boccia, il filo del discorso, che conduce un'analisi accurata e sicura del linguaggio del femminismo, di cui vengono individuati due tipi: il linguaggio rivolto verso l'esterno, modellato sulle forme tradizionali del discorso politico della sinistra, e linguaggio rivolto verso l'interno, di tipo autocoscienziale, che rappresenta una rottura e una novità propria del femminismo, non esente tuttavia da ambiguità e sfociante in un blocco della parola.
Nella sezione sul corpo, il contributo di Silvia Tozzi risulta molto utile dal punto di vista documentario. Assai più discutibile mi sembra la sua posizione fortemente critica dell'autogestione come servizio sul territorio per tutte le donne e di quanto si è ottenuto dalle istituzioni (consultori e legge sull'aborto), che viene letto come causa di disgregazione del movimento e normalizzazione del discorso sul corpo e sulla medicina prodotto dal femminismo. È, quella di Tozzi, una posizione che riporta al conflitto storico del femminismo italiano, a cui fanno riferimento molti altri saggi, quello cioè fra un orientamento esterno, rivolto al sociale e al politico, scadenzato da obiettivi e indirizzato a interlocutori istituzionali o comunque altri rispetto ai gruppi femministi, e un orientamento interno, volto cioè ad un lavoro di scavo nella coscienza e nell'inconscio, ad un confronto nel piccolo gruppo e ad un'elaborazione della soggettività e dei rapporti al femminile. Questo conflitto, prima latente e poi sempre più esplicito nel movimento, si sovrappone e si intreccia con altre polarità tipiche del femminismo internazionale: emancipazione vs. liberazione, uguaglianza vs. differenza, integrazione vs. separatismo, che seppur con modalità differenti ripropongono tutte il medesimo problema sull'identità e la specificità del movimento delle donne.
Qual è, o meglio, quale deve essere l'anima del femminismo: l'accesso pieno alla cittadinanza anche per il secondo sesso o l'elaborazione di una forma di vita autonoma fondata sulla differenza femminile e priva di compromessi col mondo apparentemente neutro, ma modellato al maschile? È chiaro che se l'obiettivo è del primo tipo, un lavoro all'esterno diventa indispensabile, mentre se è del secondo, quest'attività è solo una perdita di tempo. Va detto che in molti collettivi l'alternativa non si è posta in modo così netto e si è piuttosto tentata una ricomposizione tra l'autocoscienza e la manifestazione per l'aborto. Tuttavia l'immagine più diffusa che il femminismo italiano anni '70 ha dato di sé, come testimoniano anche numerosi interventi di questo fascicolo (vedi M. L. Boccia, M. Fraire, G. Paolucci, I. Dominijanni e la già citata Tozzi) privilegia l'interno, l'autocoscienza, la differenza sessuale e di genere, la liberazione; e ciò nonostante che molte donne e gruppi che hanno significativamente preso parte al movimento (per esempio gran parte dei gruppi sulla salute o l'Mdl) fossero invece impegnati all'esterno. Culturalmente il femminismo 'radical', tipico dei gruppi milanesi, si è imposto sull'altro, affermando se stesso come fenomeno più innovativo, alternativo, privo di compromissioni. E oggi sembra che gli esigui gruppi (quello delle autrici di "Non credere di avere dei diritti" e il collettivo filosofico "Diotima" di Verona, per esempio), che elaborano il pensiero sessuato della differenza provengano da queste origini.
Tuttavia, se questo femminismo ha, per così dire, vinto la battaglia sull'emancipazionismo, resta da vedere se è anche vincente come strategia di fondo del movimento. La già citata crisi della fine degli anni '70 va affrontata in questa prospettiva. La tesi che la legge sull'aborto e le aperture istituzionali di quegli anni siano all'origine della disgregazione dei gruppi femministi è debole, soprattutto se si tien conto del fatto che in quel periodo proprio i collettivi più ligiamente "internisti" si sfasciavano miseramente fra lacrime e sangue, risse e animosità, rifluendo in un privato per nulla politico. Si deve pertanto riconoscere, a mio giudizio, che se il movimento non è riuscito nel suo complesso ad elaborare una soddisfacente strategia di confronto con le istituzioni e il sociale (e la responsabilità di ciò va in gran parte alla spaccatura interno/esterno), il lavoro di scavo verso una nuova identità femminile e nuovi rapporti fra donne non ha portato a migliori risultati.
Vale allora la pena di interrogarsi più a fondo su questa contrapposizione, che purtroppo sembra riprodursi anche oggi. Il problema teorico di base si gioca sui due termini chiave eguaglianza-differenza. L'alternativa secca è ingannevole: significa, da una parte, sottoscrivere una teoria dell'eguaglianza rozza, intesa come livellamento, annullamento delle specificità di individui e gruppi; e, dall'altra, prendere sul serio la differenza sessuale come produttiva dell'identità di genere e dell'individuo, trasformando così in essenza il senso comune della società sessista. In realtà, affermare l'eguaglianza fra i sessi sarebbe un'assurdità se ciò volesse intendere che i corpi maschili e femminili sono fra loro indistinguibili, viceversa, affermarne la differenza è un'ovvietà. Il punto è piuttosto capire in quali situazioni la differenza sessuale è considerata rilevante ai fini di un trattamento differenziale e se ciò sia giustificabile oppure no. Sostenere poi che la differenza sessuale comporta una diversificazione complessiva delle personalità dei due sessi, in termini di aspirazioni, gusti, desideri, atteggiamenti, non ha altro fondamento se non la rappresentazione di genere corrente e il relativo condizionamento sulle persone. In ogni caso, quand'anche così fosse, resterebbe da decidere come trattare questa differenza relativamente alla partecipazione politica, alle opportunità educative e di lavoro, all'attribuzione di rispetto e dignità. Anziché partire dalla domanda "chi siamo?", che sempre comporta assunzioni controverse, converrebbe adottare una strategia che coniughi un'analisi puntuale delle strutture di genere esistenti con una reinterpretazione dei beni sociali e della loro distribuzione, che oggi procede anche secondo criteri di genere su cui dovrebbe aprirsi la discussione. Solo così si potrà giungere ad un esame critico delle preferenze ed aspirazioni, sia collettive che individuali, e pervenire ad una costruzione non astratta, n‚ totalmente adattiva del proprio sé.

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