La significativa ripresa del dibattito storico degli ultimi anni in materia di terrorismo e il mai arrestato dibattito giuridico sulla mafia hanno fornito l’occasione per avviare una riflessione contestuale e unitaria delle strategie di contrasto a questi due fenomeni. L’inedito confronto tra storici e giuristi presente in questo numero di «Meridiana» si propone di superare stereotipi, opporsi agli imperanti complottismi, uscire dalle narrazioni parziali e leggere in continuità, senza frammentazioni, la vicenda della repressione al terrorismo e alla mafia nell’Italia repubblicana. La ricerca di una verità storica e di una giudiziaria riguarda fenomeni che presentano aspetti polivalenti, mettendo in evidenza la tentazione frequente dei giudici di avvalersi delle ricostruzioni storiografiche e, viceversa, degli storici di avvalersi di documenti normativi e di materiali giudiziari per analizzare vicende che vanno ben al di là dell’aspetto criminale. In questa stessa prospettiva, è possibile suggerire un’ipotesi di lettura relativa alle conseguenze dell’uccisione di Falcone rispetto alle cesure del sistema politico italiano nel corso del primo quarantennio repubblicano. Del resto, la giustizia penale è solo l’ultimo anello della catena istituzionale del contrasto alla criminalità inteso come repressione legale: l’ottica del contrasto concorre infatti a definire le finalità del diritto e della giustizia penale, anche in un ordinamento liberale nel quale il principio di legalità e quelli del «giusto processo» hanno una funzione di garanzia di diritti di fronte all’autorità. La dimensione storica di questi problemi è peraltro tenuta presente per mostrare come la risposta penale sia stata in grado di determinare il successo delle istituzioni nella lotta al terrorismo. Al tempo stesso, la normalizzazione dell’eccezionalità e il suo divenire ossimoricamente perenne sul versante del diritto sostanziale e processuale disvelano aspetti sia positivi che negativi. Un tipico prodotto di questo doppio binario è la figura del «pentito». Il pentitismo e la struttura delle imputazioni, la duttile applicazione del paradigma del reato associativo, il ricorso a maxi-inchieste e maxi-processi possono deformare gli scopi del rito penale in funzione politico-criminale. D’altra parte, da strumento fondamentale di indagine, diffuso e utilizzato già ai tempi della risposta al banditismo stragista, il sapere interno e intorno alle associazioni diveniva una chiave di volta per sconfiggere il terrorismo e, successivamente, per penetrare l’omertà delle strutture mafiose. In diversi contributi si richiama quindi l’attenzione sugli elementi di intreccio tra repressione al terrorismo e alla criminalità organizzata, sottolineando come la magistratura abbia avuto il merito di saper disegnare, sin dagli anni di piombo, strategie unitarie di indagine e di accusa, soprattutto attraverso la capacità di ricercare i «nessi» fra le vicende. Non mancano tuttavia aspetti critici e negativi. Tra tutti, il fatto che le «emergenze», anziché restare eccezionali ed «esterne», hanno invaso le strutture grammaticali del pensiero penalistico, sono entrate nel codice e poi nel suo «sistema» più generale.
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