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Alessandro De Santis (Roma 1976) racconta una sua personale, visionaria e orrifica discesa agli inferi urbani in queste venticinque poesie scandite dal nome delle fermate della metropolitana romana, ripercorsa da una periferia all'altra della capitale, da un suburbio a un mercato a un parcheggio, da una desolazione a una disperazione: lambendo, e non penetrando, la città eterna dei Fori Imperiali, di Piazza Venezia e San Giovanni. La Roma ufficiale, quindi, del potere e dei turismo, estranea allo sciame umano che qui il poeta rappresenta con tragica lucidità di memoria pasoliniana. Entrano ed escono dalle porte di questa Metro C, risucchiati dal niente che li aveva prodotti, fantasmi di uomini e donne, spesso chiamati per nome: Claudio, Rachid, Ida, Maria, Elio...africani o neri, dai "pensieri cariati", dalle "spalle ossute", portando in giro come un fagotto il loro "corpo cavernoso", la loro "bruttezza però che/ non si lascia compatire", oppure "una bava luminosa", "la polo macchiata di sudore", "le mani unte, impiastricciate...lo zaino in spalla stracolmo". Un campionario quasi animalesco fatto di zombie, invalidi, matrone equivoche, pazzi stralunati, che De Santis osserva senza esibire particolari emozioni, mescolando Youtube e Ramadan, cercando di misurare "l'esatto diametro del cuore umano" che si nasconde dietro le facce di questi "uomini tristi come/ le loro scarpe piene di acqua". Una poesia denotativa, che non gioca con sperimentalismi e azzardi linguistici, limitandosi a prosastiche prese d'atto descrittive, al massimo concedendosi metafore appese a incubi e a spaventosi squallori quotidiani: "Scuote le sue ore cattive, Fausto/ come cuocesse un uovo al tegamino", " i denti lucidi si fanno avanti come pistoni". Nella sua viscerale prefazione, Aurelio Picca scrive: "La mole di fango umano, urbano; lo schiattamento delle culture; le scorregge dei nuovi dannati...sono ritratti con la calma di un poeta che conta i secondi che ci separano dal nulla".
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