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Berlino é città dalle sensazioni uniche, spesso negative, alcune di straniamento, posto pazzesco nel quale ogni angolo racconta del suo. Libro (purtroppo finisce in un attimo) imperdibile per continuare a pensarci.
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Nata nel 1941, figlia di alti funzionari del passato regime socialista, Monika Maron fu tra i primi autori a denunciare l'inquinamento ambientale dell'Est, pubblicando nella Germania di Bonn Flugasche (Vento di cenere, 1981). Trasferita ad Amburgo nel 1988, conosce anche in Italia un notevole successo con Via alla quiete 6 (Bollati Boringhieri, 1994), sferzante resa dei conti con la generazione dei "padri fondatori" della Ddr. Uno scavo per così dire en famille proseguito con Animal triste (Mondadori, 1995) e condotto con quello stile asciutto in cui la critica ha ravvisato un'ascendenza kleistiana. Poi, nel 1995, lo scandalo connesso con l'apertura degli archivi della Stasi, di cui lei - la dissidente - risultò collaboratrice tra il 1976 e il 1978, in cambio di più facili visti occidentali. "Ma sì, mi avevano dato quel compito, ci mettevamo lì al pomeriggio con un'amica a scrivere qualcosa per quei tangheri..." - mi disse sarcastica rievocando una vicenda destinata peraltro non tanto a screditare la scrittrice, tradotta in diverse lingue e insignita di vari premi letterari, quanto ad alimentare la discussione, ancora oggi aperta, sui rapporti tra intellettuali e potere nella Ddr.
Per reintrodurrre l'autrice nel distratto mercato delle lettere italiane, Bollati Boringhieri ha scelto un testo minore, ne ha espunto il sentore burocratico del titolo originale ( Geburtsort Berlin , Luogo di nascita: Berlino) e lo ha guarnito con le cosce in minigonna della copertina. Un'immagine in aperto contrasto con le (sebaldiane) istantanee scattate dal figlio della scrittrice Jonas che si alternano agli otto brevi racconti: foto recenti delle zone desolate in cui correva il confine, vedute con figure invernali sullo sfondo, immagini "mosse" di una grigia Berlino in rifacimento.
Come nei lampi alterni di un riflettore di scena, le prose redatte tra il 1986 e il 2003 illuminano strade e palazzi che stillano storia. Ma non è un libro descrittivo per turisti frettolosi, anzi, aggirando il ricatto dello stereotipo berlinese, Maron rovescia la prospettiva: si tratta infatti di una scrittura fortemente egocentrica, monologante e assertiva, mossa da un io in battaglia. Una scrittura di chi misura il suo rapporto con il mondo attraverso la città, i suoi linguaggi, le sue macerie - e di essa s'impregna. In questo senso il titolo italiano risulta particolarmente azzeccato. È nella sua Berlino che Maron ritrova se stessa, non invece in una città estranea come Amburgo, che pure l'ha ospitata al tempo della fuga dalla Ddr. Non è tuttavia una questione di casa e famiglia, al contrario è semmai nelle vecchie Kneipen berlinesi, oltre i vetri appannati, che s'intravedono isole di vita autentica. Assente qualsiasi altro segnale di tepore domestico, è di fatto nelle osterie, o meglio nel fondo di un bicchiere tracannato in compagnia, che il cuore si rinsangua dai guasti della vita. Nella spirale di ieri e di oggi il lettore coglie la capitale spodestata e divisa, l'attesa di una gioventù murata, i primi gesti di cauta rivolta, i guizzi di chi oggi si cerca il volto nel guardaroba di una memoria bambina.
Ma la scrittrice registra anche transiti e mutazioni di una nazione al centro dell'Europa. Sono i cambiamenti che con più ampio respiro Maron ha affrontato nell'ultimo romanzo, Endmoränen (Morene terminali, 2002). Il testo, che ci auguriamo presto tradotto, narra di una storica tedesco-orientale che, pre-pensionata dalla riunificazione, osserva con sovrano, autunnale disincanto i moti confusi e oscillanti della nuova Germania. Speleografia di un'intellettuale, ma anche di una generazione messa ai margini, che di nuovo consente a Monika Maron di saldare con scrittura cristallina il dato privato con la grande storia.
Anna Chiarloni
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