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Le mie regie. Vol. 2: Zio Vanja - Konstantin S. Stanislavskij - copertina
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Le mie regie. Vol. 2: Zio Vanja - Konstantin S. Stanislavskij - copertina

Dettagli

1996
Libro universitario
149 p., ill.
9788877481535

Voce della critica


recensione di Taviani, F., L'Indice 1986, n. 7

Il lettore veloce trarrà poco sugo da questo libro, che invece getta luce su Cechov, su Stanislavskij e sui fondamenti della composizione scenica. Complesso e protocollare, richiede una lettura paziente, che mischi mentalmente i testi a fronte di Cechov e della partitura scenica stanislavskiana. Una fatica che non poteva essere evitata da qualche trovata editoriale e che paga: restituisce molto più d'un importantissimo documento.
Fra il 1980 e l'83 sono stati pubblicati a Mosca 6 piani di regia stesi da Stanislavskij nei primi anni del Teatro d'Arte (1898 - 1904). La Ubu - libri, intraprendendone la pubblicazione, ha opportunamente deciso di cominciare dai due capolavori cecoviani. Delle regie di Stanislavskij era precedentemente accessibile in una lingua occidentale - credo - il solo "Otello"(Paris, Seuil, 1948), che però è una messinscena tarda (1929 - 30), fatta a distanza (Stanislavskij, malato, scriveva da Nizza), per uno spettacolo senza grande futuro: pagine un po' gonfie, utili più che altro per farsi un'immagine quasi quotidiana della lingua e delle pratiche di lavoro al Teatro d'Arte dopo l'assodarsi del "metodo".
Con "Tre sorelle" (1901) e "Il giardino dei ciliegi" (1904) siamo invece in presenza di due "prime" cecoviane, di due spettacoli storici, quando tutte le energie di Stanislavskij si applicavano alla messinscena, prima di convertirsi all'attore. Come scrive Malcovati, ciò che in genere si sa di questo importante momento della storia dello spettacolo è basato su poche traduzioni e molte induzioni: "noiosissimi luoghi comuni". Prendiamo ad esempio " Il giardino dei ciliegi ": si dice che Cechov lo pensasse comico e pieno di brio, quasi un vaudeville, e che Stanislavskij avrebbe invece composto uno spettacolo tristissimo. In un libretto B.U.R., per esempio, in cui il testo cecoviano era ripubblicato in onore della regia di Strehler, Luigi Lunari (1974) parlava addirittura d'un Cechov che avrebbe respinto ogni responsabilità sullo spettacolo "cupo e malinconico" di Stanislavskij. Esagerava senza riguardi ciò che però Ripellino, nel bel capitolo sulla "bottega delle minuzie" ne " Il trucco e l'anima " (1965) aveva quasi suggerito: Stanislavskij, diceva, "attenuò i lati comici" del testo cecoviano. E questa piccola nota, sulle labbra di quell'autore ormai classico, non è cosa da poco. Ricordo fra quanta euforia intellettuale, una mattina all'inizio del '62, Ripellino tenne la sua prolusione all'università di Roma (fu poi pubblicata nel numero giugno - agosto di quell'anno in "L'Europa Letteraria"): era uno studioso ed un poeta a parlare, e parlava dell'antimondo comico, delle gags, delle arlecchinate, di clowns e pierrots nascosti sotto gli abiti e gli intrecci cecoviani. Ci sembrava che stesse liberando Cechov non solo dal cecovismo, ma dal suo amico Stanislavskij. Ed ora, a 25 anni di distanza, leggiamo il piano di regia di Stanislavskij e vediamo che aveva individuato tutti gli effetti comici, che ne aveva inventati di nuovi, amplificando le scene clownesche. Così come, d'altra parte, aveva sottolineato con molta forza l'allegria e il coraggio dei giovani, contrapponendoli al distratto umor nero degli anziani.
Lo stesso Ripellino, nel suo libro del '65, aveva messo in guardia dall'eccessiva credulità in merito alla distanza fra Cechov e Stanislavskij dalla tendenza a personalizzare il contrasto fra l'interpretazione "da commedia" (o grottesca) e l'interpretazione tragica di quel teatro: Cechov per il riso, il Teatro d'Arte per le lacrime. Intorno al 1900 è proprio Cechov (lo riporta Malcovati) ad aver l'idea di pubblicare i suoi testi con lo spartito registico di Stanislavskij. D'altra parte, è il co -fondatore e co -regista del Teatro d'Arte, Nemirovic - Dacenko, ad esprimere a caldo, dopo la lettura del Giardino, non solo il suo entusiasmo, ma anche qualche perplessità per le "troppe lacrime" che sono nel testo (si veda il telegramma alle pp. 506 - 7 del vol. II dell' " Epistolario " di Cechov edito da Einaudi, 1960). Quelle che agli sguardi frettolosi o prevenuti paiono divergenze radicali e lontane scelte di campo erano gli urti in un gruppo di persone che faticavano gomito a gomito. Si spiega così anche l'enfasi di certi dissensi orali o epistolari. Doveva essere una questione di equilibri attorno ad un teatro difficile da definire: ora l'uno faceva peso da una parte, ora l'altro dall'altra. È vero che Mejerchol'd, uscito da poco dal Teatro d'Arte, rimprovererà ai suoi ex colleghi di recitare la noia, mentre i personaggi del "Giardino dei ciliegi" non sono annoiati, sono indaffarati e distratti, come in un vaudeville. Ma nel dir questo ripeteva ciò che proprio al Teatro d'Arte Stanislavskij, Mejerchol'd e gli altri s'erano detti, qualche anno prima, quasi con le stesse parole, nel corso delle prove per "Tre sorelle" (cfr. le pagine su quello spettacolo in "La mia vita nell'arte" di Stanislavskij).
Le annotazioni negative di Mejerchol'd (contenute in una famosa lettera a Cechov del 1904 e in un articolo del 1907 ripubblicato 6 anni dopo nel libro "Sul Teatro"), mettono in rilievo un errore di composizione nella messinscena stanislavskiana, non una sua interpretazione unilateralmente drammatica. Lo spettacolo stentava a trovare il suo ritmo, la sua vita interna, ma non perché puntasse sulla corda cupa e crepuscolare. Al contrario: nel terzo atto era l'eccessivo spazio dato agli interventi burleschi a rompere il filo musicale dell'azione. Malcovati, alla fine della sua introduzione, laconico come sempre per la noia dei luoghi comuni, circa una lettera del 1908 in cui Nemirovic - Dacenko lamenta che i critici non vedano gli spettacoli che alla "prima", mentre ora, col tempo, il "Giardino" è diventato un "quadro leggero", un "ricamo", e nulla rimane del pesante e faticoso dramma dell'inizio. Mesi ed anni erano stati necessari per trasformare in "gocce d'acqua leggere e precise" quei dettagli che prima avevano esagerata evidenza. Esattamente quel che Mejerchold aveva reclamato.
Ciò che i critici e gli storici del teatro non hanno quasi mai, non è tanto l'esperienza pratica, quanto la consapevolezza della sottigliezza dei tessuti che determinano la vita del teatro: per vedere i problemi debbono gonfiarne e stravolgerne i termini. La memoria del teatro così si perde, mentre si edifica al suo posto l'ordine dei riassunti storiografici.
Nel 1925, Stanislavskij sarà perplesso alla proposta di pubblicare i suoi spartiti di regie cecoviane, per i quali Cechov aveva nutrito tanto entusiasmo. Stanislavskij non si riconosceva più nella figura del regista che impone agli attori una partitura da lui determinata. Ma ciò che ora possiamo leggere mostra che sarebbe davvero sciocco immaginarsi un regista crepuscolare, realista - lirico, maniaco dell'ambientazione e della psicologia. In realtà sono già all'opera i criteri che guideranno lo Stanislavskij maestro d'attori. Egli non illustra i testi cecoviani: per riempire i passaggi del testo inventa storie a volte microscopiche. A volte (a p. 13, per esempio, "Irina offre a Cebutykin un dolcino mettendoglielo in bocca") sono azioni che rivelano le parole essere maschera ("Irina [...] m'è parso di sapere come si debba vivere [...] L'uomo deve lavorare, sudare sul suo lavoro"). Costruisce la partitura scenica, soprattutto, mettendo in moto precisi correlativi oggettivi: se si deve parlare di realismo bisogna farlo come per Hawthorne.
Cechov, nel " Giardino ", faceva sentire i colpi sui ciliegi. Inventava, nel II e alla fine del IV atto, l'enigmatico suono della corda spezzata. Stanislavskij cerca di far vivere anche la villa, protagonista, assieme a coloro che la abitano, del dramma - commedia. Pensa a pavimenti che scricchiolano, che dialogano con i passi degli attori. Pensa ad un piccolo pezzo di intonaco che si stacca dal soffitto e va a sfarinarsi per terra nel salotto vuoto. È una mimica o fisionomica della casa assai poco crepuscolare, e che semmai conduce alla villa che muta nel 4| capitolo della II parte di " Gita al faro ".
Questi esempi non isolano invenzioni eccezionali. Fanno parte d'un tessuto complesso che percorre in maniera stupefacente l'intero dramma. La partitura di "Tre sorelle rivela", più ancora dell'altra, l'intreccio drammatico dei correlativi oggettivi: qui ci sono orologi che si inseguono nei suoni, che creano lo spazio profondo e lo ribaltano, che si rompono. E l'immagine usata da Irina nel I atto ("la vita [...] ci ha soffocate... Come un'erba parassita"), negli atti seguenti diventa una storia muta, parallela alla trama: dappertutto crescono le cose dei bambini superano i limiti delle stanze, si allungano in giardino. La vita, come un topolino, prolifera negli interstizi, pulsante e distruttrice.
Di tutto il resto, della minuzia dei dettagli che fanno atmosfera e che per gli allievi e i luoghi comuni riassumono Stanislavskij (se ne veda la più recente traccia, per quanto riguarda l'aneddotica italiana, nel troppo garbato libretto di ricordi di L.M. Giachino, "Stufi de tanta luce", Loescher, 1985), non solo Cechov, ma anche Stanislavskij sorrideva. Quelle "atmosfere" erano puntelli per gli attori, prima e più che per gli spettatori (cfr. il cap. sul "Giardino" in "La mia vita nell'arte"). Purtroppo non è possibile insistere su questo rovesciamento d'ottica, esemplare per capire gli equivoci a cui va incontro la storia del teatro. Né è possibile sottolineare altri preziosi elementi di sapienza scenica, come quei minuscoli mutamenti nel ritmo delle azioni che rendono conseguenti ai sensi - e quindi ancor più illogici al pensiero - gli scatti semantici cecoviani.
Circolarono molti equivoci, negli anni scorsi, intorno a Stanislavskij: una dogmatica positiva, imbalsamata dallo stalinismo o dalle scuole americane; e altrettanto dogmatiche negazioni in nome d'un brechtismo ingenuo o d'un antirevisionismo accecato (se ne veda un esempio estremo nei tristi articoli raccolti in appendice a "L'opera di Pekino", Feltrinelli, 1971). Oggi lo stanislavskismo sta tornando di moda, da noi, come via allo spettacolo "normale", cioè ancora una volta stravolto.
Nel concludere, infatti, bisogna almeno ribadire la qualità del rigore di Stanislavskij, che questo libro mostra in azione. Non un rigore di stile o di idee, pura interiorità, n‚ il rigor mortis d'una ferrea morale. Poté assumere, di volta in volta l'uno o l'altro di questi aspetti, ma fu sostanzialmente - come Gerardo Guerrieri notò e spiegò fin dal '56, introducendo una nuova edizione de " Il lavoro dell'attore " - capacità di contraddizione, di combinare elementi eterogenei fino ad ottenere per via artificiale l'impronta sintetica della vita. È la forma mentis che ritroveremo in tutti i veri alunni di Stanislavskij: i non (o gli anti) stanislavskiani.

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