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Milord. Avventure dell'anglomania italiana - Edgardo Bartoli - copertina
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Milord. Avventure dell'anglomania italiana
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Milord. Avventure dell'anglomania italiana - Edgardo Bartoli - copertina
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Descrizione


Quando Nicolò Carandini, plenipotenziario della nuova Italia nata dal crollo del fascismo, arrivò a Londra circondato dai suoi collaboratori, il funzionario di modesto rango incaricato di riceverlo con la massima freddezza possibile, fu colto da un attimo di sgomento. Elegantissimo, alto, bello, il conte Carandini non rientrava affatto nei modelli mediterranei in cui gli anglosassoni avevano ristretto gli italiani, in categorie abbastanza offensive, di qualsiasi provenienza e ceto fossero. Sembrava - e in fondo lo era - un lord, più vero di quelli che frequentavano la camera dei pari: qualcosa che per un inglese non poteva esistere in natura. Così al funzionario non rimase altro che pronunciare una sola parola, rimasta celebre: "Impossible". Se Carandini era chiamato scherzosamente alla Farnesina "Lord Carandini", l'autore di questo libro, un notissimo giornalista, era chiamato "Sir Edgardo" nei giornali in cui ha lavorato come corrispondente e come inviato da Londra - il "Corriere della Sera" e "La Repubblica". Chi meglio di lui avrebbe potuto scrivere questo libro che tratta principalmente, ma non solo, di una malattia contagiosa, ma con effetti quasi sempre benefici, quando non si aggravava, diffusa nelle classi dirigenziali europee, l'anglofilia, e di come questa sia andata con il tempo modificandosi in anglomania e, scendendo dai propositi iniziali, si sia trasformata in un'ossessione un po' ridicola per tutto quello che portava un marchio inglese.
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Dettagli

2007
29 novembre 2007
240 p.
9788854502192

Voce della critica

Sembra che quando il generale Kitchener fu informato della disfatta italiana ad Adua (la prima sconfitta di un paese europeo in una guerra coloniale), se ne sia uscito con l'esclamazione: "Impossible!". Cioè impossibile, inammissibile, tanta impreparazione, leggerezza, dabbenaggine… Meno male che ogni tanto (più raramente) gli inglesi, noi italiani, li sbigottiamo anche in positivo. "Impossible!", ad esempio, pare abbia esclamato anche il funzionario inglese chiamato a ricevere, il 20 novembre 1944, il primo ambasciatore dell'Italia postfascista: s'aspettava il tipo latino, tracagnotto e imbrillantinato, scuro di pelle e basso di culo, ulteriormente involgarito da vent'anni di regime mussoliniano (che è quel che serve agli italiani, diceva nientemeno che George Bernard Shaw), e invece ecco lì davanti il conte Nicolò Carandini, grigio, alto e flessuoso, bello come Gary Cooper, elegante e nonchalant, più lord di un lord…
Di siffatti, prelibati, mai ostentati rimandi o accostamenti è intessuto l'impagabile Milord di Edgardo Bartoli, un giornalista – anzi scrittore, e di che razza! – passato da quella fucina di talenti che fu il "Mondo" di Pannunzio (vi uscirono anche le Lettere da Londra di Arbasino, che sul mio scaffale ora non stanno lontano da Milord), al "Corriere della Sera" alla "Repubblica", come corrispondente da Londra o inviato speciale. Il libro si apre nell'immediato secondo dopoguerra e poi procede zigzagando per tutto il Novecento e la seconda metà dell'Ottocento, con affondi anche nei secoli precedenti, inseguendo non solo le "avventure dell'anglomania italiana", ma, quand'è il caso, anche le vicissitudini dell'italomania inglese. Infatti "è in quella gran voglia d'Italia stimolata dall'arte, dalla cultura e dalle dovizie rinascimentali" che si intravede "il primo sussulto", "il passo iniziale verso la grandezza mondiale dell'Inghilterra futura"; e forse, come istruiva Dino Grandi, l'ambasciatore fascista a Londra (piuttosto accorto nel blandire il complesso di superiorità locale), la differenza fra inglesi e irlandesi sta tutta nel fatto che i primi hanno conosciuto la dominazione romana, i secondi no!
Anglofilo senza dubbio, Edgardo Bartoli dagli inglesi ha imparato, fra mille altre cose, il sano pragmatismo di accettarsi per quello che si è: cioè, nel suo (e nostro, ahimè) caso, italiano. Per cui è capace di vedere qualcosa di buono anche nei nostri sfaceli d'insipienza e velleità. Se, ad esempio, "il colonialismo inglese ha lasciato un'impronta generale di stile, si può dire che quello italiano, nel suo piccolo, ha lasciato un segno altrettanto indelebile di gusto". Anche la nozione di gentleman – "culmine di una società borghese, placcata di aristocrazia (…) il maggior contributo mai dato dall'Inghilterra all'ideale della perfettibilità umana" – non ci è del tutto estranea: incarnabile com'è non solo da un "lord Carandini", ma qui anche da Alberto Denti di Pirajno, il prefetto che consegnò Tripoli al generale Montgomery, in un incontro ("avrebbe meritato una ripresa cinematografica con un Fellini dietro la macchina da presa") dove senz'altro il più "inglese" dei due si dimostrò l'italiano.
Denti da Pirajno è autore, fra altri titoli e un paio di romanzi non trascurabili (come Ippolita), dello stupendo libro di memorie Un medico in Africa (1952), assai amato da lettori d'eccezione come Karen Blixen, Cyril Connolly e Harold Nicholson, ma pressoché ignorato da noi, dove la letteratura d'ambientazione coloniale non ha mai trovato grande fortuna. Bartoli ricorda i nomi di Enrico Emanuelli e Mario Tobino, e colgo l'occasione di aggiungere quello (uno pseudonimo) di Alessandro Spina, forse il maggior romanziere italiano vivente, un autore che – per parafrasare Bartoli a proposto di Denti da Pirajno – "non appartiene a nessun clan intellettuale, non frequenta gli addetti ai lavori, non sollecita recensioni", quindi resta ignoto ai più, ostinatamente dentro I confini dell'ombra – come s'intitola il suo ciclo di romanzi e racconti ambientati in Libia, scritti in quarant'anni, raccolti in un volume di più di milleduecento pagine pubblicato dalla Morcelliana di Brescia nel 2006.
Se quella di Alessandro Spina è una scelta di solitudine (vedi anche il suo Carteggio con Cristina Campo, Morcelliana, 2007) assai poco italiana, gli inglesi in Italia sembrano specialisti nello star per conto proprio. Semmai, come Byron, non sono indifferenti alle grazie femminili (o efebiche) della popolazione, ma di rado mostrano curiosità per la cultura e la vita intellettuale del paese che li ospita. "Ma io voglio andarci a morire", pare abbia risposto Norman Douglas, l'autore di Old Calabria, al console che non gli concedeva il visto permanente per vivere in Italia (e allora dovette dir di sì). E quando a Freya Stark, la celebre viaggiatrice inglese ritirata ad Asolo (la cittadina veneta amatissima da Robert Browning, che coniò il gerundio italo-inglese "asolando"), si chiedeva perché non tornasse in patria, la vispa novantenne rispondeva: "Perché soltanto gli stupidi non vivono in Italia". Un'Italia che esiste, evidentemente, e non è meno reale, anche se quasi sempre a noi preclusa. Mi viene in mente la conclusione di un articolo di Montale, che aveva appena incontrato W. H. Auden a Venezia: "Lo lascio pieno di invidia. Mi mancherà sempre la gioia di vivere da straniero in Italia. E Dio sa se non ho provato a farlo; ma quando ci si è nati il giuoco non riesce!".
A sua volta lo straniero, se sa come comportarsi, cioè se conserva "il suo modo di essere e di apparire", se non rinuncia, insomma, alla propria originalità, in Inghilterra è accolto e può trovarsi bene. Come, nell'Ottocento, fu per Mazzini, Lacaita o Panizzi: sir Anthony Panizzi, che divenne il direttore del British Museum (tutt'ora vi si tengono le "Panizzi Lectures"), e progettò la sala di lettura dove studiò un altro esule illustre, Carlo Marx. Diverso il caso, più tragico, di Ugo Foscolo, cui Bartoli accenna appena: forse ritenendo definitivo il giudizio di Carlo Dionisotti (anch'egli, come il compianto Meneghello, un italiano anglicizzato), che "mancò al Foscolo nella inizialmente splendida e poi gelida solitudine dell'esilio, la forza di smentire la propria anacronistica identificazione col personaggio del romanzo [l'Ortis] e di accettare la realtà di un esilio diverso" (Appunti sui moderni, il Mulino, 1988).
Al di là della pletora di notizie e di aneddoti, e del bel ritmo del racconto, quello che piace soprattutto in Bartoli è lo stile, aforistico con misura (ad esempio: "Solo la civiltà può essere moderna, mentre la modernità può anche essere incivile"), il respiro del gran conversatore e un piglio, direi quasi, da "moralista classico": per cui l'osservazione storica, di costume o estetica è sempre anche politica e viceversa, e sempre accompagnata da una sua non ingombrate dimensione etica.
Leopardi scriveva: "Gl'italiani non hanno costumi, essi hanno delle usanze. Così tutti i popoli civili che non sono nazioni". E le cose non sono cambiate granché, se è vero che ancor oggi il nostro è "un paese allo stato virtuale, dove tutto resta ancora da fare, e si può fare in un modo o nell'altro". Ma anche l'Inghilterra, forse, non è mai stata veramente una "nazione", ma sempre qualcosa di più o di diverso ("Non sarà che le nazioni vere e proprie non possano essere isole?" si chiede Bartoli). Anche per questo, forse, il libro si chiude con un capitolo-intervista dedicato a Isaiah Berlin, un grande inglese che inglese in realtà non era (dicendo di sé, con impeccabile understatement: "Sarò giustamente considerato il più grande filosofo lettone vivente"). Con sovrana assenza di dogmatismo, sir Isaiah, guidato da Bartoli, discorre di tre secoli di storia e ideologie europee e, quando si viene a toccare l'Italia, la parola più ricorrente è "decenza": "La parola chiave di quella che fu l'educazione liberale, la parola sconfitta, calpestata dai grandi battaglioni armati di certezze, ignorata da tutti gli altri, accantonata, bandita dal lessico politico italiano, la parola caduta in disuso, nella cui scomparsa c'è tutta la storia della disfatta morale dell'Italia".
Ecco, il libro di Edgardo Bartoli è istruttivo, intelligente, responsabile, ironico, superiore senza esser mai altezzoso: soprattutto è un libro "decente", necessario oggi forse come sempre, o forse come non mai. Francesco Rognoni

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Conosci l'autore

Edgardo Bartoli

Edgardo Bartoli, giornalista, ha iniziato come condirettore della Voce Repubblicana, è passato poi a Il Mondo di Pannunzio e quindi al Corriere della Sera, di cui è stato corrispondente da Londra. Successivamente è stato inviato speciale de La Repubblica. Ha scritto per i maggiori giornali italiani. Con Neri Pozza ha pubblicato Ricettario controriformista e Milord. Avventure dell'anglomania italiana. 

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