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Mio fratello è un romanzo di eccezionale maturità letteraria, che affronta il tema della disabilità senza mai cedere al sentimentalismo, offrendo anzi uno spaccato sociale obiettivo e impietoso.
«Continuiamo come bambini, a imputarci inspiegabilmente per l'affetto»
Alla morte dei genitori, bisogna decidere chi si prenderà cura di Miguel, quarantenne con la sindrome di Down. Sarà il fratello, professore universitario divorziato e misantropo, a sorprendere la famiglia facendosi carico di questa responsabilità, nella speranza di riscattarsi dall’aridità in cui la sua vita è precipitata. Nella casa di famiglia, in un paese sperduto del Portogallo rurale, riemerge il ricordo dell’affetto e della complicità degli anni dell’infanzia, ma anche quello del drammatico episodio che ha cambiato il corso delle loro vite.
Arriva grazie alla casa editrice Nutrimenti l’uscita italiana del premio Leya 2014 Afonso Reis Cabral. Il premio, nato nel 2008, attribuisce 100 mila euro e un importante riconoscimento nazionale e internazionale a un romanzo inedito di lingua portoghese. Oggi è uno dei premi più ambiti del mondo lusofono, soprattutto per la visibilità che l’opera premiata riceve a livello internazionale. Non a caso Nutrimenti non si è certo lasciata sfuggire l’occasione e ha già pubblicato l’opera di João Ricardo Pedro, vincitore nel 2011 con il romanzo Il tuo volto sarà l’ultimo.
Giovanissimo, vincitore del premio a soli 24 anni, originario di Porto, si laurea all’Universidade Nova di Lisbona in studi portoghesi e lusofoni. Con Mio fratello (336 pagine, 19 euro) si guadagna la fama nazionale e la critica lo indica tra le voci più interessanti della recente letteratura portoghese per la profondità e la maturità con le quali l’autore affronta il tema delicato della disabilità. Una condizione che l’autore tocca da vicino: il fratello, così come il personaggio principale del romanzo, è infatti affetto dalla sindrome di Down.
Un narratore senza nome esordisce informando i lettori che le vicende di cui parlerà si svolgeranno a Tojal. Questa «specie di confessione in forma di romanzo» si snoda su due binari paralleli dove fin da subito alla voce del narratore, che ricostruisce le vicende, si alterna una dimensione diversa della narrazione, ottenuta a livello visivo attraverso l’impiego di un carattere corsivo: quella della sua coscienza, che offre al lettore pensieri più intimi, e altrimenti inespressi, giudizi e consapevolezze scomode da ammettere e ancor più da rivelare.
È verso questo luogo desolato dell’entroterra del Portogallo, in un paese disabitato, isolato e «lontano da tutto il resto» che si dirigono il narratore e il fratello minore Miguel, affetto dalla sindrome di Down, scivolando a ritroso nel tempo, diretti alla casa paterna.
I protagonisti fuggono da se stessi verso un passato di ricordi che riecheggia in un presente squallido e senza scopo, segnato dall’assenza dei genitori e dal silenzio della vita rurale di un paese quasi disabitato.
“Forse le persone tornano all’ovile per leccarsi le ferite” e le ferite sono quelle del rapporto controverso tra i due fratelli, cuore pulsante di questo romanzo, cresciuti in una casa dove il silenzio nasconde la rabbia per una natura sbagliata e l’indifferenza la placa.
Il legame viene revocato fin dall’infanzia, che il narratore ricorda come “una lotta per la bellezza delle cose quotidiane” che agli occhi di un ragazzo sono sopratutto l’affetto e l’attenzione da parte della famiglia: per Miguel è tutto facile perchè, dice il fratello, non ci sono sfide nella sua condizione di disabilità, che gli consente semplicemente di “esistere senza lottare” per ricevere amore, felicità, soddisfazione al riparo da “richiami e ceffoni”; per l’altro, un professore e “scrittore non praticante” tra i quaranta e i cinquant’anni, l’esistenza è piena di desideri che devono essere conquistati con fatica.
È una relazione dove la fratellanza si declina anche in invidia e rivalità, alle quali segue il rimorso e la tenerezza quando subentra la consapevolezza “che è facile ferire le persone che si amano”. Eppure volgere lo sguardo al passato significa andare in un tempo “in cui è bello essere fratelli”, dimenticando il tempo presente di rovine dove Miguel non diviene altro che la somma dei suoi genitori di cui è il simulacro, a ricordo di un’assenza dolorosa.
Tutto è incentrato sulla vita passata di Miguel, che il narratore rievoca attraverso la descrizione minuziosa delle sue giornate trascorse nel centro diurno per disabili e dell’amore puro e assoluto per una ragazza disabile di nome Luciana. L’indifferenza, la crudeltà e la compassione per la loro condizione, che in alcuni passi mette in ombra l’affetto e la premura fraterni, trovano così finalmente un contraltare in un rapporto amoroso intenso ed esclusivo, innocente e puro come quello tra bambini, implacabile e totalizzante come le certezze dell’infanzia, che il narratore non può fare altro che descrivere perché incapace di dare o ricevere un simile sentimento.
È forse il rammarico per non aver mai provato amore paterno per il fratello, ora che ne è diventato “il custode”, con l’incredulità delle sorelle, a sollecitare il cambio di rotta verso Tojal: un luogo abbandonato e che non riesce ad offrire riparo ma solo a riflettere l’amarezza di un’esistenza vuota ora che Luciana non c’è più ed è giunta l’ora di affrontare una questione rimasta in sospeso.
Non ci sono sentimentalismi nelle parole di questo narratore solitario che si rifugia nello studio dei lemmi della lingua portoghese e che rifugge i contatti umani, ma la cruda consapevolezza che “non sempre siamo intimiditi dai più forti”.
Con una scrittura aspra e tagliente e uno stile impeccabile, che evita i preziosismi stilistici e ricerca un linguaggio autentico e diretto, che ricorda la chiarezza e il genio di Gonçalo Tavares, Afonso Reis Cabral offre un ritratto onesto della disabilità, al di là di luoghi comuni e sentimentalismi, scavando nell’animo umano senza paura di rivelare anche la cattiveria e l’indifferenza della nostra condotta, la complessità e i contrasti di un legame fraterno. Un esordio eccezionale per uno scrittore che avrà ancora molto da far parlare.
Recensione di Silvia Gasparoni
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