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Un libro drammatico, un episodio della Resistenza raccontato da un diretto protagonista. Uno stile freddo e conciso, capace di esporre in maniera semplice una serie di eventi raccapriccianti per l'orrore. Stupiscono non tanto le violenze arrecate dagli aguzzini, quanto quelle che un uomo è capace di portare a se stesso. Da assumere a distanza dai pasti!
Recensioni
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recensione di Cases, C., L'Indice 1995, n. 7
Luciano Bolis, nato a Milano nel 1918 e morto a Roma nel 1993, gravitò sempre intorno al gruppo di Giustizia e Libertà e al suo naturale erede, il Partito d'Azione, nonché intorno al Movimento Federalista Europeo, per cui lavorò molti anni a Strasburgo e a Roma, accanto a Altiero Spinelli, da cui lo dividevano forti differenze di temperamento. Chi vuol saperne di più su questo periodo e sugli scritti federalisti di Bolis troverà maggiori ragguagli nell'informato profilo biografico, opera di Nicola Terracciano. In generale quelli che in gergo editoriale si chiamano gli "addobbi" mostrano la vitalità del libretto. In appendice si trovano le prefazioni di Ferruccio Parri e dello scrittore Luigi Santucci, amico personale dell'autore, alla prima e rispettivamente alla seconda edizione, e all'inizio oltre al profilo biografico si troverà una nuova prefazione di Giovanni De Luna, il noto storico del Partito d'Azione. Insomma, il granello di sabbia di Bolis è rimasto passando attraverso tutte le clessidre inesorabili del tempo.
Caduto il 6 febbraio 1943 nelle mani dei nazifascisti a Genova, dove era uno dei capi del Cnl, Bolis, orribilmente torturato prima alla casa dello studente e poi nelle carceri di via Monticelli, benché fosse riuscito a far sparire il libretto degli indirizzi e altre carte pericolose, per paura di spifferare qualche cosa sotto tortura decide di suicidarsi con due lamette da barba sfuggite alla perquisizione, riuscendo soltanto a recidersi delle vene e a frugarsi nella gola in modo da ledere gravemente gli organi della fonazione. Quando conobbi Bolis a Zurigo qualche mese dopo era ancora quasi completamente afono, ma aveva ripreso l'aspetto vagamente mazziniano con la barbetta a punta che doveva essere sempre stato il suo e che aveva trovato completamente deformato guardandosi allo specchio dopo le torture. c'è un caso che collega la Resistenza al Risorgimento, questo è il suo. Già Parri paragonava il suo tentativo di suicidio a quello di Jacopo Ruffini. È poi di rito il paragone con "Le mie prigioni" del Pellico, con cui in verità il libretto ha poco in comune, se non altro perché qui non c'è nessun odor di sagrestia, Bolis è un italiano laico medio che conosce meglio i bordelli, dove spesso passa la notte per evitare fastidi con la polizia fascista, dei confessionali, anche se un frate esige da lui una confessione che egli trasforma in una professione di fede antifascista. La sua religiosità di tipo mazziniano anche quando gli permette di spargere lacrime comuni con un brigatista nero che si intenerisce sulla propria e l'altrui miseria, non ha niente a che vedere con la sintesi cattolaica che vorrebbe forse apparire all'amico cattolico Santucci. Resta il conflitto pressoché insolubile tra l'etica, più che protestante, squisitamente stoica del suicidio e la personalità globale di Bolis, che la rifiutava. Questo conflitto diventa ancora più acuto quando Bolis, sistemato in ospedale dopo il tentativo di suicidio, circondato dalla simpatia dei medici e dall'affetto, che presto si tramuta in amore, dell'infermiera Ines, divenuta sua moglie dopo la liberazione, oscilla tra queste nuove ragioni di attaccamento alla vita e l'imperativo di spingere fino in fondo il tentativo di suicidio. Per fortuna sua e nostra prevalse il desiderio di vivere. Ma quel conflitto e l'assoluta onestà dell'esposizione fanno di questa testimonianza autobiografica una perla della letteratura resistenziale che se ci fosse giustizia a questo mondo potrebbe degnamente sostituire nelle scuole le pagine ingiallite del Pellico.
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