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Protagonista della Resistenza, combattuta nelle file del Partito d'Azione, magistrato e storico, Alessandro Galante Garrone raccoglie qui, attraverso un dialogo serrato e intenso con Paolo Borgna, magistrato del Tribunale penale di Torino, le sue riflessioni sul cinquantennio repubblicano. In un contrappunto mai oziosamente memorialistico tra passato e presente il suo sguardo si rivolge alla guerra di liberazione e ai suoi attori, alla ricerca delle radici della legalità repubblicana. È la coerente lezione di un «mite giacobino», che con saggezza intrisa di ironia raccoglie ritratti ora affettuosi ora severi dei protagonisti, ricostruendo momenti importanti ma spesso dimenticati della nostra storia civile. Ma il filo che annoda i ragionamenti alle testimonianze è quello, attualissimo, delle qualità del trapasso politico, dei bruschi ricambi del ceto politico dirigente. Ecco allora il ritorno alle esperienze di Giustizia e Libertà e del Partito d'Azione alla luce del «bisogno di azionismo» - ovvero di discontinuità - che da più parti si riconosce alle porte della Seconda Repubblica: emerge, intatta e vitale, la passione politica e civile delle origini, il rifiuto di ogni neutralità imbelle, la crudeltà e la necessità, oggi come allora, della scelta di campo.
recensione di Giordana, F., L'Indice 1994, n.11
È un piccolo, grande libro, frutto di una collaborazione fra un magistrato quarantenne di Torino e il celebre autore: uno dei padri di questa Repubblica, nato poco prima dell'inizio della Grande Guerra, magistrato a Torino per circa trent'anni, partigiano attivo nelle formazioni di Giustizia e Libertà e poi fra i fondatori e animatori del partito d'Azione, dal 1963 professore universitario di storia del Risorgimento e collaboratore di quotidiani e riviste non solo italiani. Il volume raccoglie una serie di ricordi e riflessioni sui temi indicati nel sottotitolo, suscitati dalla struttura dialogica, e basati su un continuo confronto fra le vicende italiane (dal crollo del fascismo alla ripresa della vita democratica) e i molti, contraddittori, aspetti di questi anni che, secondo taluni, segnerebbero il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica.
L'atteggiamento con cui Galante Garrone risponde alle provocazioni e alle richieste del giovane interlocutore è sempre di grande onestà intellettuale e storica, senza alcuna mitizzazione di un periodo che lo vide fra i protagonisti della ripresa civile e morale, prima ancora che politica, del paese: un periodo che ebbe anche valore formativo sugli anni immediatamente successivi, con tutti i limiti e le contraddizioni derivanti dal rapido affievolirsi del cosiddetto vento del Nord (così diverso dalle polemiche leghiste a cui ci stiamo tristemente abituando).
Ancora una volta si verifica come le vicende storiche anche recenti, se intese e inquadrate correttamente, pur con la partecipazione e l'inevitabile passionalità che trapelano dalle parole di uno dei protagonisti, sono di grande utilità per cercare di comprendere alcuni aspetti del confuso agitarsi di forze politiche e sociali nel presente, e - soprattutto - per respingere fondatamente vere e proprie falsificazioni storico-politiche interessate, portate avanti con arroganza e talora sfrontata disinvoltura dai fautori della seconda Repubblica, in spregio di ogni seria opera di rivisitazione critica e documentata del recente passato.
Sotto questo profilo di particolare rilevanza sono le notazioni dell'autore sul tormentato periodo del "passaggio di regime", cioè gli anni dal 1944 al 1946; i problemi posti - e solo in minima parte soddisfacentemente risolti - dall'epurazione, il ruolo svolto dagli Alleati (la vicenda del procedimento nei confronti di Valletta ne è un esempio istruttivo), il tentativo del partito d'Azione di intervenire nell'opera di ripresa e ricostruzione della vita democratica del paese. Su quest'ultimo argomento - in particolare - le considerazioni, anche giustamente autocritiche, di Galante Garrone sono estremamente illuminanti per comprendere come e perché ci si sia avviati verso un periodo di riflusso presto sfociato nella crisi degli anni più vicini a noi, sino agli attuali - ancora scomposti e controversi - tentativi di rinnovamento politico-istituzionale; Galante Garrone segnala a più riprese i gravi rischi di involuzione che si corrono nell'attuale momento storico, con accenti di grande e motivata preoccupazione che non scadono mai nel vuoto pessimismo.
Nella seconda parte del libro - significativamente intitolata "Un'altra Italia" - le riflessioni di Galante Garrone sono in gran parte dedicate ad alcune vicende storico-politiche, e in qualche caso anche giudiziarie: come l'incredibile processo al vescovo di Prato, imputato di diffamazione nei confronti di due giovani coniugati con il rito civile che aveva additato pubblicamente come "pubblici concubini", e come l'inquietante vicenda del giudice Troisi, sottoposto a censura disciplinare per aver scritto un libro ritenuto lesivo del "prestigio" della magistratura, solo perché argomentatamente critico sul ruolo del giudice in quegli anni in Italia. Sono vicende che bene illustrano il clima e il livello, in verità assai basso, della società civile italiana negli anni dal 1950 al 1970. Si tratta di un periodo che vede l'autore, sino a tutto il 1963, operare come giudice a Torino in un contesto - non solo tecnicoprofessionale - assai diverso dall'attuale, ancora pesantemente segnato da incrostazioni e miopie talora insopportabili per uno spirito libero e critico come il suo (e di pochi altri colleghi, in verità, come appare chiaro analizzando i riflessi che il caso Troisi ebbe all'interno della corporazione dei magistrati). Sul piano politico-istituzionale sono gli anni del centrismo a egemonia democristiana e del primo centrosinistra, con la definitiva scomparsa dall'agone politico vero e proprio di formazioni, come il partito d'Azione (o i suoi infelici tentativi di imitazione), direttamente collegate ai fermenti del periodo immediatamente precedente, e il progressivo affermarsi - all'opposizione del blocco di potere egemone - del partito comunista. Di qui la ricorrente e ancora attuale polemica circa un preteso ruolo di passiva subordinazione degli azionisti, come Galante Garrone, nei confronti del comunismo, come rappresentato e politicamente incarnato, in quegli anni, in Italia, dal Pci.
Su questo argomento le parole dell'autore rimettono davvero, opportunamente e (nei limiti del possibile) definitivamente, le cose a posto. Sembra davvero troppo pretendere un minimo di attenzione su questo tema da parte degli attuali improvvisati revisori della storia recente italiana (non disinteressati 'laudatores' dei nuovi equilibri politici). Eppure meriterebbero attenzione le argomentate e pacate considerazioni di chi, come l'autore, fu tra i protagonisti dell'esperienza azionista e uno dei più attenti testimoni del tormentato rapporto azionista con l'esperienza italiana del comunismo, con gli indiscutibili riflessi sulla società e sulla politica del paese. Non possiamo farci illusioni, ma se non si ha coraggio di scrivere egualmente opere così, non ci si può stupire se le nuove generazioni mostrano stupori e lacune da 'Combat' film.
La terza parte del libro, intitolata "Democrazia e coltura delle garanzie", affronta più direttamente alcuni dei gravi problemi posti dallo sviluppo dell'ancora malferma democrazia italiana: in relazione, soprattutto, alle diverse "emergenze" di questi ultimi anni. Sono affrontati il terrorismo politico degli anni settanta e ottanta, la corruzione affaristico-istituzionale e, infine, la criminalità organizzata di natura e matrice mafiosa, endemicamente connessa alla società italiana (come ad altre del mondo occidentale, seppure con particolarità da tenere sempre presenti): e risulta che quest'ultima si è ormai venuta configurando come vero e proprio Antistato. Anche su questi temi - e sul necessario, ineludibile contemperamento delle esigenze di sicurezza e tutela sociale con i principi fondamentali dello Stato di diritto, recepiti dalla Carta costituzionale - le parole del magistrato e dello storico, che tanta parte ha avuto nelle vicende politiche del passato prossimo, meritano attenzione e suonano di estrema attualità. Quanti degli attuali governanti - assunti repentinamente a incarichi di grande responsabilità e impegno (invero non tutti per espressa indicazione elettorale...) - sono disposti a meditare e riflettere sul messaggio che l'autore, senza iattanza o pretesa di definitività di sorta, invia, in replica alle puntuali osservazioni critiche e alle impegnative domande del magistrato interlocutore? Su temi come la lotta alla mafia, il tipo di risposta sanzionatoria che l'apparato repressivo dello Stato deve adottare, nel rispetto del dettato costituzionale, nei confronti del crimine organizzato e la corruzione e il malaffare dei pubblici amministratori, gli errori e i passi falsi - anche quando da ascrivere a impreparazione e superficialità, per non citare i disegni interessati che in materia anche di recente, si sono dovuti registrare - rischiano davvero di riportare la società italiana ai livelli dell'immediato dopoguerra, e in ben altre condizioni storico-politiche, con il rischio di preparare per le nuove generazioni altri periodi di oscurantismo e arretramento della civiltà do paese.
È in definitiva, una pacata, ma ferma e documentata lezione quella che Galante Garrone impartisce ai suoi lettori, con l'esperienza di una vita tutta protesa verso la ricerca e l'affermazione di quei principi di giustizia e libertà. E davvero l'appellativo di "mite giacobino" appare adeguato al suo percorso esistenziale e professionale.
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