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Il titolo della nuova raccolta poetica di Patrizia Fazzi è indubbiamente originale, ma ben si presta ai contenuti e alle finalità. Al riguardo c’è una poesia che dà il titolo all’intera silloge e che descrive una situazione esistenziale del tutto particolare, ma non inconsueta, cioè quell’essere in una condizione di sospensione che probabilmente esisteva anche in passato, ma che in un’epoca come la nostra, caratterizzata dall’assenza di contatti diretti, sostituiti da macchine, di cui noi siamo al contempo operatori e fruitori, è diventata la norma. Viviamo in una sorta di limbo di cui siamo consapevoli, ma anche arrendevoli; viene meno così quel contatto umano, indispensabile con una coesistenza, e che ci fa sembrare distratti, indifferenti, poveri soprattutto d’amore, sia quello che possiamo dare, sia quello che possiamo ricevere. Per chi, anche come me, ha avuto un passato diverso, nemmeno tanto lontano, c’è la tendenza a ricordare, a farsi venire in mente come la mano teneva la penna che scriveva, un contatto diretto con un foglio esistente, e non certo elettronico. Quando la poetessa scrive “.../ sentirsi non vivere ma / sopravvivere / nel turbinio epocale / da Cd a Pc / fino ai link, ripensando / alla boccetta d’inchiostro / nel calamaio del banco / ai pastelli di cera, alla magia / di un ricamo la sera. /…” si avverte forte un rimpianto per anni trascorsi, per un’infanzia su banchi di scuola in cui il tecnicismo attuale non era nemmeno pensabile e invece predominava il contatto diretto con cose, con penne e pennini e la mano si muoveva a comando dell’intelletto e del cuore. E’ forse superfluo dire che mi ritrovo con quanto scritto, visto che l’età, mia e quella della poetessa, se non uguale è però tale da averci fatto nascere in un tempo di cui non resta che il ricordo di chi vi ha vissuto, di un mondo che ormai appare morto, tanto è lontano da quello odierno. Da leggere, senza dubbio.
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