L'autrice dell'utilissima ricerca chiarisce che per "momento irlandese" bisogna intendere quel periodo di quasi trent'anni che va dalla fine della Restaurazione in Francia (1830) ai primi anni del Secondo Impero, quando un cospicuo gruppo di uomini di cultura francesi maturarono "una lunga passione intellettuale" per quel contesto così lontano. L'Irlanda era un paese differente dall'Inghilterra, che una Francia ancora scossa dagli echi e dai lasciti della rivoluzione guardava con interesse: del resto, il "conservatorismo inglese" aveva preservato l'ordine sociale nel paese d'oltre Manica, in un contesto istituzionale monarchico che molti consideravano un'ispirazione sul piano politico. Ma l'Irlanda era diversa anche dagli Stati Uniti, il cui esempio paradigmatico era stato consacrato in Francia da Tocqueville. L'Irlanda era inoltre lontana dalla miracolosa crescita economica inglese (e americana), dalla rivoluzione industriale e dal libero mercato. Anzi, risultava palese l'arretratezza economica del paese: integrata con l'Atto di Unione del 1801 nella potenza più importante del mondo, la nazione era in balia di una minoranza aristocratica protestante che dominava su una popolazione per lo più cattolica. Nonostante questi limiti oggettivi, gli irlandesi (come sottolineava Augustin Thierry, il padre di tale prospettiva) rappresentavano il più grande esempio di popolo che non si era né piegato né rassegnato. Critico nei confronti della "odiosa e ridicola anglofilia" che caratterizzava molti ambienti d'oltr'Alpe, lo storico esortava la Francia liberale, su esempio del popolo irlandese, a non farsi abbattere dalla sconfitte che sembravano dare spazio a uomini e idee dell'ancien régime. Anche il cattolico liberale Charles de Montalembert guardava con interesse al mondo irlandese che tra l'apostasia e la miseria aveva scelto la seconda, dimostrando, insieme alle proprie gerarchie nazionali, di sapersi battere "per Dio e per la libertà", e dando dunque prova di come fosse possibile un'alleanza tra libertà e fede. Sulla stessa linea era Gustave de Beaumont, che nella sua opera del 1839 L'Irlande sociale, politique et religieuse metteva in evidenza l'importante funzione della religione nel cammino dell'Irlanda verso la democrazia. Ceretta chiarisce, nella sua bella introduzione, come il dibattito politico francese desse "forma e corpo a immagini dell'Irlanda che adottavano progressivamente il profilo dell'altro rispetto alla Francia rivoluzionaria, anticlericale, senza memoria, senza continuità storica". L'Irlanda incarnava "un luogo dove la continuità storica non si era mai spezzata e che di quella continuità portava ovunque visibili testimonianze". Ma ciò che giustamente l'autrice sottolinea è come, rispetto al modello inglese e in parte a quello americano, il modello irlandese spostasse "l'attenzione dallo stato al popolo e alla società". L'interesse di queste personalità non si concentrava sui meccanismi costituzionali e nemmeno sull'organizzazione istituzionale o economica, bensì sulla "grandezza di un popolo senza né volto né nome", che alla violenza dei conquistatori aveva saputo rispondere con la riproposizione della propria memoria e la riaffermazione della propria identità. Daniela Saresella
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