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Anno edizione: 2010
Anno edizione: 2011
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Il libro tratta i problemi più classici dell'ontologia e della filosofia del linguaggio con metodo, precisione, leggerezza e creatività. Il lettore non viene ammorbato dalla pedanteria e dalle vanità tipiche dei libri di filosofia diretti a un pubblico non specializzato, ma arriva subito al punto, al cuore della materia. Consiglio questo libro a chiunque si stia avvicinando alla filosofia, o a chi per delusione se ne sia allontanato e voglia riscoprirla nella sua forma più autentica e genuina.
"Non tutte le ciambelle riescono con il buco", dice il proverbio. Il libro di Achille Varzi, però, è una ciambella ben riuscita. Non ha un buco in copertina, come il Suo primo libro "Holes", però dentro se sente il sapore di un buco pieno di calore cosmico, direi di Fuoco. LUI, e perché no, anche LEI, utilizzano una semplice ed efficace formula che ci permetterà cucinare nelle nostre menti le più svariate ricette, con un solo e meraviglioso ingrediente: le parole scritte con la passione e dedizione che solo le menti brillanti possono escogitare. 5 Aprile 2012
Recensioni
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Sono varie le voci che parlano nell'ultimo libro di Achille Varzi, e dal gioco di specchi della loro interazione emerge un'immagine dei rapporti tra scienza, filosofia e senso comune che è quasi una visione del mondo, tanto forte è l'impressione che ci dà di avere messo ogni cosa al suo posto. Due delle voci appartengono rispettivamente a Maurizio Ferraris e a Roberto Casati, ai quali il libro è dedicato. Ferraris compare nelle vesti di Hylas, Casati sostiene in più punti il duro lavoro di Varzi, che a sua volta ora veste i panni di Philonous, ora invece lo attacca, diventando da ultimo il solo responsabile di quanto leggiamo. Il prologo ripropone un dialogo del 2003 tra Ferraris e Varzi su ontologia e metafisica, a cui seguono cinque missive, che Varzi indirizza soprattutto a Hylas (paradigma del filosofo realista), ma in parte anche all'alter ego Philonous. L'epilogo ripresenta il racconto L'ineffabile sfera (anch'esso del 2003), dove si narra del Quadrato, abitante di Flatlandia, che azzarda l'ipotesi della tridimensionalità per risolvere l'assillante problema della forma posseduta dall'universo bidimensionale che egli abita.
Le metafore visive del titolo e del sottotitolo del libro si dirigono in primo luogo contro quelle forme di realismo che ammettono un mondo popolato da tutto ciò che entra nell'orizzonte della nostra umana esperienza, anche se non solo ed esclusivamente di quella ordinaria. Tale realismo soffre, secondo Varzi, di miopia ontologica, nel senso che non riconosce "diritto di cittadinanza a quelle entità che fanno a pugni con lo status quo ontologico su cui si reggono la nostra filosofia e la ricerca scientifica più consolidata". Il fatto che noi parliamo di numeri, classi, funzioni e significati come di "entità" in un senso non del tutto diverso da quello in cui parliamo delle cose concrete, non ci autorizza ad assumere che delle presunte "entità astratte" facciano effettivamente parte del nostro mondo e non piuttosto "dei sogni di certi filosofi". La situazione non migliora con gli odori, i sapori, i colori, le emozioni, le capriole, le mode, le pieghe della camicia, gli errori di calcolo e molte altre cose ancora, perché proprio questo è il problema: che noi ci riferiamo a tutto ciò come a cose, non significa ancora che di cose si tratti. Ma l'incalzare del ragionamento si trasforma in vera sfida quando veniamo indotti a riflettere e a prendere posizione sulla natura di quegli innocui elementi d'arredo che sono i tavoli: cosa ci autorizza a ritenere che un tavolo sia un oggetto costituito da una superficie di appoggio (in legno, plastica, metallo) sostenuta da circa quattro gambe e non piuttosto che sia uno sciame di particelle disposte in un certo modo e di cui noi ci serviamo per certi scopi? E infine, va da sé che, se nemmeno di un tavolo è lecito dire che è un oggetto, figuriamoci se ha senso dirlo del denaro, dei matrimoni o dei contratti, come vorrebbe l'ontologia sociale di Maurizio Ferraris, espressione attualissima del realismo qui sotto accusa. Ma dunque Varzi è uno scientista ammalato di "occamite"? Uno che riconosce diritto di esistenza solo a quelle entità certificate dalla fisica ed esige un'ontologia scarna, di quiniana memoria, un catalogo del mondo ridotto all'osso, senza doppioni? La risposta è in buona parte negativa.
Sebbene sia riduzionista, difensore di un'ontologia che non ammette il tavolo del senso comune accanto allo sciame di particelle che "tavoleggiano", Varzi non è comunque uno scientista. Nessuna scienza, infatti, potrà mai dirci che cosa sono le differenze di altezza o i tagli o i buchi; o come si possa stabilire che il tavolo di oggi, sporco di marmellata, sia lo stesso tavolo pulito di ieri. Su tutto ciò e su problemi analoghi solo le sottili analisi della logica, dell'ontologia e della metafisica possono illuminarci. L'interesse della riflessione di Varzi non sta nel chiedere l'abdicazione del senso comune dinnanzi alla forza del sapere scientifico, ma nel ritenere possibile un equilibrio fra tutte le parti che, a diverso titolo, sono interessate a rendere conto dei molti aspetti del reale. Nella Quarta missiva, ad esempio, una variazione sul tema della distinzione tra apparenza e realtà sembra contribuire a tale equilibrio: è la distinzione tra uso refenziale e uso attributivo delle descrizioni. Se è lecito riconoscere al senso comune l'utile funzione di organizzare il mondo secondo strutture cognitive tipicamente umane, altamente efficaci, non per questo dobbiamo sentirci impegnati a difendere la veridicità descrittiva degli enunciati che veicolano i suoi contenuti. Tutto quello che è richiesto, affinché il senso comune funzioni, "è l'efficacia del riferimento". Così al di là delle immagini del mondo che esso ci fornisce troviamo intatta la pretesa di riuscire a conoscere "il mondo come è fatto lui, non il mondo come ce lo sogniamo e disegniamo noi". Ed è solo alle teorie impegnate in tale impresa che, secondo Varzi, compete l'uso attributivo delle descrizioni. Un unico mondo dunque, dinnanzi alla duplicità dei modi di descriverlo e alla molteplicità delle immagini che possiamo formarci di esso.
Il quadro, tuttavia, si complica se mettiamo a confronto quanto appena detto con il riconoscimento che "nemmeno le immagini che emergono dalle scienze fisiche sono esenti dall'effetto invasivo della nostra azione organizzatrice". Varzi ci ricorda che non possiamo né dobbiamo aspettarci che le scienze parlino un linguaggio neutrale, capace di rispecchiare confini ed entità de re. Tutti i confini, a suo avviso, possono essere soltanto de dicto. Se la natura ha qualcosa da dire, per il fatto di dirlo a noi, deve servirsi delle nostre convenzioni. E qui Varzi non esita a dichiararsi convenzionalista, anche se chiarisce subito che il suo non è un convenzionalismo a tutto campo, che potrebbe essere confuso con l'irrealismo di Goodman o con il relativismo alla Putnam. La nozione di confine de dicto, infatti, "ha senso solo nella misura in cui esiste della materia sottostante su cui tracciare le nostre linee" ed è sui modi di concepire tale materia, nonché sulle possibili relazioni che essa è in grado di intrattenere con i confini da noi tracciati che, ancora una volta, la riflessione ontologica e quella metafisica hanno molto da dire. Per il convenzionalismo realista di Varzi "'esiste' corrisponde al comune quantificatore esistenziale". Noi decidiamo quali e quante entità de dicto introdurre nel nostro catalogo, ma le parti della materia che costituiscono la "base" delle nostre entità sono quelle che sono. Nella Terza missiva, per esempio, troviamo esposte le sue ragioni per una concezione quadridimensionalista della cosiddetta "base". In ogni caso, per il convenzionalismo realista i giochi restano sempre aperti. La metafisica è rivedibile, proprio come la scienza. A questo serve, tra l'altro, l'ostinata difesa, nella Quinta missiva, della distinzione tra ontologia e metafisica, tra cosa c'è e che cos'è. Se infatti non ammettessimo la possibilità di concordare quanto meno sul catalogo del mondo, la discussione sulla natura degli enti in esso inclusi non potrebbe nemmeno cominciare, e neanche il disaccordo sarebbe possibile. Per questo aspetto, difendere la specificità della metafisica, distinguendola dall'ontologia, è come voler garantire il principio del confronto democratico in filosofia.
Marilena Andronico
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