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Anno edizione: 2016
Anno edizione: 2003
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Non è un libro, è un oceano, con tutto quello che ne consegue. Inghiotte, fagocita, espelle, trasforma: si annaspa, spesso, in in una corrente sottomarina che spolpa le ossa, le scarnifica. Si cerca, a tratti, di uscirne, di vedere una sponda, una riva, una possibile salvezza: è inutile, la sola cosa da farsi e chiudere la pagina e respirare, a pieni polmoni, faticando e chiedendosi se ne è valsa davvero la pena. La risposta, soggettiva, è chiaro, è un deciso "no". Non ne è valsa la pena. Un capolavoro dal quale fuggire, alla fin fine, con la decisa consapevolezza della sua opprimente prosa, infinita, anestetizzante. Altri lidi, altri viaggi, altre attese, altri mattini e crepuscoli. Così, forse, finalmente sarà tuo l'aperto campo dello ieri, l'alba dei puledri.
Un uomo ai suoi ultimi affanni, "l'essere ridotto ai meri appetiti della superficie, torbida, nera esteriorità, gravida di morte"; e tuttavia ancorato alle domande di sempre, spinose e irrisolte, vane e prensili insieme, lungo le rughe di un poema che lo ha deciso umanamente e che è tuttora lascito di canto sovrano, lui "Publio Virgilio Marone, schietta prole contadina di Audes, vicino Mantova". Mentre il brulicante porto di Brindisi echeggia sotto le sue finestre egli, adagiato sul letto, tenta ancora una volta di scavare nella sua vita e leggerne "l'inspirare e l'espirare", alleati oscuri e tuttavia inscindibili. Ma "ciò che noi crediamo è sommerso e non dobbiamo cercarlo perché la sua irreperibilità ci irride". Questo il conflitto che agita e tiene aperte le ali interroganti, un'intera vita ad incarnarlo e a estenuarlo in ogni rigo della sua impresa, "un taurino ruggente ultimo assalto" finchè salute e pensieri reggano la sfida. "Perpetuo presente della domanda, nel perpetuo presente di un sapere insciente, divina prescienza dell'uomo che non sa, nel sonno terrestre del gregge". Continua aderenza interiore alle spine di una chiamata, l'essere e il sentire una volta in una danza, un'altra in una lotta, per giungere ad approdi sempre sfuggenti, forse al ricamo di un amore bastevole, o alla dignità, a un seme di bontà che compia il proprio germoglio lungo i solchi del casuale terragno. Fallimento, insoddisfazione, inquieto e ostinato respiro di dentro, mentre si chiede infine se la sua Eneide sia soltanto le ammirate gesta di una Roma grandiosa o vera poesia destinata alla gloria: "Oh, infinito è l'intelletto umano, ma quando sfiora l'infinito ecco che ne viene respinto, privo di conoscenza, e il pensiero non è più cosa da uomini". Capolavoro indiscutibile, breccia lucente in un '900 ucciso dal secondo conflitto. Parola ed azione portate fino ai dossi più alti di una solitudine lacerata. La sua, la nostra,un chiedere eterno e un non poter toccare che avanzi d'ombra.
Dopo che con 'I sonnambuli' in tre volumi non era riuscito a convincermi, Broch sfodera tutto lo sfoderabile in termini di prosopopea e leziosità letteraria con il carico della complessità poetica; un'interminabile flusso di coscienza targato 19 a.c. ma che appartiene anche al pensiero novecentesco dello scrittore viennese. Egli apre un varco prezioso sulla Classicità che però, a causa del registro alto adottato nelle lunghe disquisizioni politico/filosofico/letterarie, mi è risultato particolarmente impegnativo valicare. Così aulico, iperdrammaticamente vocativo e interiettivo da mettere davvero in crisi. La lettura, necessariamente, procede lenta, una litania perpetua, con così pochi punti fermi (nel senso dell'interpunzione) che dopo un po' cominci a desiderarli come l'acqua nell'outback australiano, perché queste pagine seccano davvero le fauci. Non posso proprio dire di averlo goduto - come invece era successo con l'Ulisse di Joyce a cui spesso viene associato -, tutt'altro, a tratti mi ha persino irritato, quasi messo di cattivo umore. Raramente mi sono trovata fra le mani una lettura così ostica, al limite dello scoraggiante, che però non mi sono sentita di abbandonare e tantomeno di bocciare in quanto - oltre a non averne l'autorevolezza -, nell'ultima parte ho percepito nettamente che qualcosa cominciava a smuovere. Posso, dunque, solo riferire le mie sensazioni che corrispondono al giudizio delle due stelle che ho dato, ma sul valore letterario oggettivo di quest'opera, non reputo di avere la sufficiente competenza per esprimere alcunché. Per cui qui mi fermo, e lo volgo ai lettori più attrezzati di me. «E poi venne la dolcezza di conoscere tutto e di non conoscere nulla, di sapere tutto e di non sapere nulla, di sentire tutto e di non sentire nulla, venne la dolcezza del completo oblio, venne — senza sogni — il sonno.»
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