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Ricordi, storielle, fugaci impressioni, brevi prose, riflessioni critiche, aforismi: questo contengono i taccuini del poeta americano di origine serba Charles Simic, che Adelphi pubblicò nel 2008 nella traduzione di Adriana Bottini, con il titolo Il mostro ama il suo labirinto. Su tutto domina una sprezzante ironia capace di disintegrare le convenzioni, facendo cozzare solennità e quotidianità, banalità e mistero: “La religione: trasformare il mistero dell’Essere in una figura somigliante al nonno seduto sul vaso. “ Non manca una visione politica di amara disperazione: ”In democrazia, il ruolo principale della stampa libera è quello di nascondere al Paese che è governato da un’oligarchia.” Così in poche righe acuminate è tratteggiato un universo in fondo concentrazionario, quello umano, tragico ma al tempo stesso ridicolo e spesso anche meschino, cui si oppone l’immensità senza volto e senza misura del cosmo non umano. L’ironia è la lente attraverso cui Simic vede il mondo. Non è un’ironia leggera, né un feroce sarcasmo, Simic riesce a sostare in una terra di mezzo sospesa fra le due opzioni. Così demistifica se stesso e la realtà, mostrandoci l’aspetto famigliare delle cose solenni e l’aspetto solenne delle cose quotidiane, più una terza interessante dimensione aporetica. Attraverso la frammentazione di questi testi ci descrive la disgregazione propria della contemporaneità, ormai privata anche di quell’ansia di recuperare un’unità perduta che ha contrassegnato il Novecento. È perciò la sua una felice frammentazione d’idee, contenuti, rapsodiche visioni, frammenti casuali, che non ambiscono a nessuna riunificazione ideale, neppure formale, si sparpagliano sulla pagina. Simic racconta così la duplicità di ogni cosa, la profonda ambiguità del reale, con una concisione fredda e chirurgica e ci regala un libro splendido con la consueta geniale noncuranza. “La bellezza di un attimo fuggente è eterna.”
«LE CONNOTAZIONI HANNO LE PROPRIE GEOMETRIE NON EUCLIDEE» Dato e (non) concesso che il mondo sia una “nave di folli” e tutti noi i suoi passeggeri clandestini, non resta che convenire con Simic sull’importanza della poesia, sola a proteggerci dalle miserie della finitudine e dalle paure dell’infinito. Charles Simic deve aver avuto in mente alcunché di simile quando stese questo diario di pensieri intitolato IL MOSTRO AMA IL SUO LABIRINTO: ‘labirinto’ come coscienza, anima… e ‘parola’ come filo di Arianna, filato della ragione e della sragione. Quel che sembra plausibile è che la parola nella sua forma poetica, libera da ogni compiacimento estetico e decorativo, corra come mostro nei cunicoli della coscienza, e mai sola, ma, diceva Dante, “in traccia”: schiere di parole—le «divinità transitorie» di ellenica concezione—che ci avvolgono e proteggono; non semplice pensiero bensì figura, intensamente plastica, luminosa; parole rivolte a far campeggiare immagini che non sono che metafore. E Simic qui ne traccia quasi una teoria, ci costringe a studiare la metafora, nascostamente seminata qui e là, con aforismi però risoluti e fermi. All’ordine della Metafora, che nel libro sembra mai cessare, subentrano pure altri suoi volti: l’Arte e la Forma… e, suprema, l’Immaginazione… i tre aspetti, nell’intrico dei corridoi, confondendosi e mescolandosi. Per cui la vera uscita è la completa conoscenza del labirinto stesso, più alta forma di amore. Come scriveva Antonin Artaud: «Nessuna immagine mi soddisfa se non è anche allo stesso tempo conoscenza».
Scintille in prosa brevissime simili tuttavia a comete dalla coda fiammante; folgorazioni, bruciature, echi di ricordo e di difesa del semplice, di povere cose a formare il candido reame di una vita qui regalate come in un quaderno dell'anima dove i segreti saltano in aria come uscendo da pacchi a sorpresa e offrendoci il sorriso di cui è capace la miglior riflessione dentro l'umano. Nel succinto allora il brillio dell'eterno, la fiaccola della parola poetica a tentare di far luce su angosce e paradossi, su offese, recuperi di sogno, misteri che cercano di tradursi nel sale di un esempio, un'immagine, perle una dietro l'altra ad onorare la fatica dell'umano e la stupenda bellezza della vita.
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