Due sono gli obiettivi dello studio di Gemma e Attilio Belli: "descrivere" una narrazione e indagarne l'influenza. La narrazione, messa in atto da un gruppo di intellettuali di ascendenza liberale e liberaldemocratica che si raccoglie intorno al settimanale "Il Mondo", ha come oggetto l'urbanistica ed è rivolta alle élite del paese. L'influenza che lo studio intende tratteggiare (allora e ben oltre l'interruzione delle pubblicazioni) è sulla disciplina e sul suo multi-interdisciplinare e conflittuale spettro di "cultori". I meriti di questo libro sono numerosi. Gli autori offrono un testo capace di comporre differenti piani di lettura (della società, della città, suo fulcro e condensatore, della pianificazione urbanistica, della sua storia e del suo destino) e restituirne così i complessi intrecci. Osservano un periodo cruciale, tra la fine degli anni quaranta e gli anni sessanta. Ovvero tra la modellazione societaria polarizzata (meglio, bloccata), imposta alla nostra storia unitaria dalla geopolitica mondiale post '48 e il drastico ridimensionamento del tentativo riformista di conciliare sviluppo ed equità, nel quadro di un'auspicata alleanza fra neocapitalismo e ambienti riformisti, ai quali, com'è noto, ampi settori dell'urbanistica italiana ancorano le sorti della propria legittimazione sociale e istituzionale. Rispetto a tale contesto, gli autori evidenziano la necessità di riattivare ricerca e riflessione di taglio storico-critico sulle radici, le filiere, le linee di resistenza dell'urbanistica italiana, evidenziando nella faticosa relazione che venne stabilendosi fra di esse e le forme della modernizzazione un campo d'indagine essenziale per comprendere potenzialità, limiti e tare della cultura disciplinare nel lungo periodo. Infine, a conferma del rilievo di tale tema e interazione, gli autori offrono un esauriente saggio della sua fertilità, indagandolo attraverso la lente delle élite. La narrazione che prende forma e si afferma, in ragione della marginalità consapevole, oltre che obbligata, che ispira il gruppo del "Mondo", tratteggia le sembianze idealizzate di un'élite intransigente, indipendente e critica, sorretta da un condiviso imperativo morale e pedagogico, che si vorrebbe in lotta contro altre élite, quelle dominanti, e il loro potere di controllo e coercizione. Nei fatti, ciò che prende forma dalla narrazione è la limitata influenza sulla realtà che elitismo e indignazione hanno, quale specchio del tendenziale rifiuto che "Il Mondo" intrattiene con la modernizzazione. È proprio su questo piano che divengono pregnanti voci e temi urbanistici. La modernizzazione è intesa come aggressione all'identità della nazione, distruttrice del patrimonio di beni comuni culturali, artistici e paesaggistici che ne costituiscono l'identità. Alle spalle si scorge il dramma, già consumato (si veda il prologo-introduzione ) di una visione etica dello sviluppo della società che tenta di coniugare stato e mercato, piano e libertà, e che si mostra già dopo la svolta del '48 ineffettuale. Insomma, lo spazio di manovra del "Mondo" è vieppiù ristretto: comprime e infine espunge dal proprio orizzonte privilegiato quelle posizioni che si fanno carico di prospettare e legittimare l'utilità sociale dell'urbanistica quale corpus di teorie, scale di intervento, strumenti e metodi, d'azione e di conoscenza, indispensabile per indirizzare verso esiti di razionalità ed equità le relazioni fra modernizzazione socioeconomica, democrazia, territori e popolazioni. Un esito, in accordo con gli autori, riconducibile alla scelta intransigente del settimanale. Estrema ratio della marginalità storica dell'elitismo. Perno di una linea di resistenza realistica, centrata sulla discriminante (dominus in materia Antonio Cederna) della salvaguardia del patrimonio collettivo di beni d'elevata capacità identitaria. E nel contempo cifra del ruolo sociale dell'élite, mobilitata per contrastare l'epilogo di una civiltà decostruita dalla pochezza morale e intellettuale del suo corpo sociale, dalla sua autoctona forza vandalica. Una linea che, per la tendenziale autoreferenzialità dell'indignato impegno militante, finisce non cogliere i nodi reali (e di struttura) della grande trasformazione socioeconomica e culturale della nuova Italia in formazione: la portata storica dell'esaurirsi della civiltà rurale; la parabola del liberalismo, mai accetto al comunitarismo e solidarismo di un'Italia rurale (e delle sue città contadine); la transizione, accelerata da una matrice organico-comunitaria di regolazione dello sviluppo, a un assetto societario definitivamente urbano-industriale, esito dell'accettazione in toto dell'equazione urbanizzazione-industrializzazione e del rifiuto di una diversa visione connessa a un equilibrio, forse ancora perseguibile, tra industria e agricoltura, città e campagna. Dinamiche alle quali ricondurre il profondo rimescolamento delle molte popolazioni del "bel paese" e la loro elevata mobilità sociale e fisica. Sullo sfondo, per quanto concerne il governo dello spazio, una concezione del riscatto dal pauperismo e dell'accesso delle masse alla condizione di "popolo", disponibile a tollerare un uso marcatamente utilitarista del territorio e del paesaggio. In sintesi, "Il Mondo" mostra una limitata comprensione della fase di accesso del nuovo corpo della nazione alla forma storica della democrazia industriale di massa. Ne discendono: distacco perdurante e sostanziale dai grandi temi socioeconomici che alimentano la riflessione disciplinare sullo spazio; affidamento della correzione del corso della storia a un garantismo destoricizzato delle istituzioni, a una sorta di virtuosa forza coercitiva; non di meno, una cultura dell'inconciliabilità, dell'appartenenza fondata sul metro escludente dell'ostilità che promuove pregiudizio, scarsa predisposizione all'argomentazione, contrazione della ricerca. La ricerca storica sull'arduo rapporto modernizzazione-urbanistica è dunque riaperta. Si auspica sia, come è nel libro di Gemma e Attilio Belli, scevra da tentazioni teleologiche e manichee. Giulio Ernesti
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