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recensione di Vallerani, M., L'Indice 1997, n. 6
Il paradosso dell'individualità nella storia europea medievale è che non esiste un lessico dell'"io", una reale possibilità di rappresentare o autorappresentare l'individuo. Certo, distinguendo "individualità" da "personalità", Gurevic si mette al riparo dagli anacronismi: inutile cercare nei testi medievali lo scavo interiore, la tormentata ricerca di sé presenti in sant'Agostino e nei moderni, perché così non era "l'uomo medievale" che quei testi scriveva. Ma anche limitandosi a un più generico concetto di personalità, intesa come "individuo inserito nel contesto storico concreto", la ricerca della persona nella letteratura dell'età di mezzo è destinata a continui insuccessi, a cominciare dal termine stesso di persona che aveva tutt'altre implicazioni, riferendosi in primo luogo all'immagine di Dio.
Gurevic tende dunque a destrutturare le opere classiche del biografismo medievale, mettendone in luce i limiti oggettivi delle capacità di introspezione. Non sono autobiografie quelle di Gerberto di Nogent e di Abelardo, ma rispettivamente una confessione e un'apologia (e lo stesso genere biografia è ambiguo perché nel medioevo non è tutta la vita che diventa storia, ma il "movimento" verso una tappa definita dalla Provvidenza); non sono ritratti individualizzanti quelli di Salimbene, ma adattamenti a "tipi", così come dalle prediche di Bertoldo da Ratisbona, nonostante la priorità della "persona" nella gerarchia dei talenti che Dio ha consegnato all'uomo, non emergono ancora individui ma categorie di persone.
L'uomo europeo cristiano, in sostanza, non aveva i mezzi per esprimere la propria individualità e quella altrui: i divieti etici contro la presunzione e l'orgoglio, la mancanza di un lessico dell'io, la naturale tendenza a confondersi nell'immagine riflessa del "tipo", portavano gli autori medievali a esaltare gli elementi comuni rispetto alle peculiarità individuali. Con due notevoli eccezioni: la cultura germanica precristiana così come viene trasmessa dai poemi eroici scandinavi; e le "menti anormali", per altro frequenti nel medioevo, che rivendicavano la propria individualità sapendo che quello era il peccato maggiore.
Lo spazio dedicato all'epos nordico è ampio e motivato. Nei poemi scandinavi è infatti possibile recuperare strati profondi di un antico "egoismo pagano" che esalta l'azione individuale, specie se di guerra e di conquista, senza alcun senso di colpa. Riguardo alle seconde, le "menti anormali", il discorso è meno lineare; segni di "follia" sono presenti in molti autori esaminati, a cominciare da Abelardo, cosciente che le sue disgrazie altro non erano che una punizione per la sua irraggiungibile superiorità intellettuale, per arrivare a Suger, abate di Saint-Denis, che finisce quasi per identificarsi con la nuova cattedrale da lui rifatta. Gurevic sembra a volte sottovalutare queste fortissime pulsioni a manifestare la propria persona anche sotto forma di confessione e di autodenigrazione, eppure sembra questa la caratteristica di fondo dell'esperienza medievale: attraverso laceranti tensioni si avvia in Europa un faticoso processo di affermazione dell'individuo, un lento spostamento del baricentro della psicologia collettiva verso l'uomo singolo.
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