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bellissimo.scritto con arte.
Intelligentemente integrato dalla riproduzione delle pagine del diario della madre (ci sono anche delle fotografie). Mentre leggevo Dacia andavo a ripercorrere quei momenti nel diario e viceversa. Ho letto e riletto il diario, guardato e riguardato le foto. Mi sono sentita catapultata tra le peripezie di questa famiglia errante. L'ho letto un anno fa e mi è rimasto nel cuore.
Premetto che non sono sempre entusiasta dei libri di Dacia Maraini: a volte mi sento respinta da quello che mi sembra un certo tono pedagogico, come se ci fosse una buona causa da dimostrare, e quindi un certo artificio letterario. In questo caso, invece, ci sono brani di vita vissuta. Il libro è un contrappunto fra gli scarni appunti del taccuino della madre Topazia Alliata (un album fotografico della famiglia, con alcuni commenti, riprodotto al centro del libro) e le libere associazioni che ne scaturiscono per la scrittrice, sia riguardo alla vita di allora da bambina in Giappone, sia a quello che è successo dopo. Mi ha colpito, fra gli altri aspetti, nella Maraini un atteggiamento verso i propri genitori che solitamente si trova nei figli di adesso: l’esigenza di normalità che avvertono i bambini, rispetto alle scelte di vita libere e avventurose di padri e madri, scelte che talvolta finiscono per avere per loro costi troppo alti. Così, più tardi negli anni, la separazione dei genitori evoca per lei la perdita del piccolo mondo familiare così amato. Ma i genitori della Maraini erano senza dubbio dei precursori: per le professioni creative ma poco remunerative che esercitavano (la ricerca antropologica per il padre, la pittura per la madre), per la scelta di viaggiare e di adottare usi e cultura del paese ospite (Dacia parla prima e meglio il giapponese che l’italiano), per l’atteggiamento laico ma rispettoso verso tutte le fedi religiose, per l’uso libero del tempo e dei danari (rispetto al quale la scrittrice rivendica la propria “regolarità”), fino alla coerenza nelle scelte politiche antifasciste, che li ha portati al campo di concentramento giapponese. Per non parlare poi – a livello della famiglia più ampia – degli originali comportamenti di vita delle due nonne, una inglese (quella paterna, “fiorentina”) e l’altra cilena (quella materna, “siciliana”).
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