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Alcuni episodi raccontati da Boris sono agghiaccianti, seppur non raccontati nei dettagli, che lasciano rabbrividire il lettore. Di racconto sull'olocausto ne ho letti molti, ma questo a volte ho avuto difficoltà a portarlo a termine. Come primo approccio all'argomento non lo consiglierei (inizierei da "Se questo è un uomo" o "Noi, Bambine ad Auschwitz"), ma se non vi spaventa un opera di maggiore complessità potreste provare a leggerlo e conoscere un uomo di grande spessore e forza.
Struggente, drammatico, veritiero... E Pahor ha 100 anni. Vorrei conoscerlo per carpire il segreto della sua longevità...
Esistono due tipologie di negazionisti. I primi sono ormai – ahi noi – celebri: negano l’Olocausto e la Shoah da parte della Germania nazista guidata da Hitler. Poi ci sono i negazionisti più diffusi. E in mezzo ci siamo tanti di noi. Sono quelli che negano o dimenticano alcuni aspetti fondamentali della storia, e di ogni storia. Sono i celebratori delle gesta di eserciti e generali che dimenticano che nell’orrore, come nella gloria, ci sono tanti piccoli uomini che con i loro sussulti di dignità hanno contribuito in maniera decisiva a cambiare il corso delle cose. Per tutte e due le categorie non c’è lettura più indicata di “Necropoli” di Boris Pahor. Il suo viaggio nella prigionia in un campo della morte, nel “mondo crematorio” delle camice zebrate. Tra la vita e il nulla. Il suo memoriale della “nebbia stagnante” . Ci sono tantissimi personaggi, nelle memorie di Pahor. Tantissimi eroi, che cercano di “spezzare il cerchio magico dell’impotenza e del lento spegnimento”. Su tutti, rimangono impressi quei “capacissimi tecnici in casacca zebrata”, ingegneri reclusi nei campi di sterminio, che si stavano occupando dei missili tedeschi per bombardare l’Inghilterra. Erano, insomma, meccanici destinati dalle SS alla costruzione di armi mortali. La storia l’hanno fatta loro. Come? “Si diceva che avessero immesso dell’urina nelle sottili tubature: i missili, che erano stati portati in Francia e collocati nelle rampa di lancio si erano rifiutati di partire. Un’altra volta le tubature erano state intasate con la carta”. Riescono a sabotare un treno intero di missili. “I meccanici erano stati impiccati – conclude Pahor – quindici, ad un rotaia innalzata di traverso in mezzo ad una galleria”. Storia di piccoli eroi, è “Necropoli”, storia di morte, con episodi brutali (la fame, la spersonalizzazione, il cannibalismo, la schiuma blu che esce dalla bocca delle vittime della camere a gas) trattati sempre e comunque con limpida visione, lucida analisi.
Recensioni
Osservare questo libro nelle classifiche dei libri più venduti è una gradevole sorpresa, ma si potrebbe subito discutere se sia stato corretto inserirlo, come hanno fatto i quotidiani, nella narrativa straniera. Vero è che viene tradotto dallo sloveno, ma l'autore vive e insegna da molti anni a Trieste, città che adora, come del resto i suoi abitanti: "Nei lineamenti dei triestini esistono infatti certe particolarità, difficilmente definibili, che riescono a richiamarci alla mente, quando siamo lontani dalla nostra città, il profilo di un angolo di strada, una piazza o una vecchia insegna sopra una latteria. È come se l'ambiente in cui si è nati avesse impresso la propria immagine su un volto, e quell'immagine, simile alla calura estiva sull'asfalto, ondeggiasse lievemente attorno alla pelle delle guance, nei solchi sotto il naso, agli angoli della bocca". Pahor parla un italiano eccellente, una prima traduzione di Necropoli era già uscita nel 2005 senza che nessuno se ne accorgesse. Potenza della televisione che si è occupata di questo grande vecchio triestino? Può darsi.
Pahor è uno scrittore fecondo, diciamo pure un poligrafo, con un numero impressionante di volumi al suo attivo, anche se in Italia, a parlare di lui, e a scriverne, sono stati pochissimi (che io sappia il solo Fery Fölkel, che acutamente e provocatoriamente lo accostava a Kosovel). Il problema degli slavi a Trieste è antico quanto il mondo. Un Giorno del ricordo fissato per legge non aiuta a comprendere perché sia così profonda la cicatrice del confine orientale (qui, fra l'altro, ci troviamo di fronte al riproporsi di una questione linguistica, ben conosciuta a chi ricordi le difficoltà di scrivere, e di pubblicare, che sempre hanno avuto i triestini).
La novità consiste nel fatto che Necropoli offre una diversa angolatura per studiare la deportazione politica dall'Italia, oggi in condizione di evidente subalternità rispetto a quella razziale, su cui si pubblica moltissimo, forse troppo. Della Shoah slava nulla conosce il grande pubblico.
Nella costruzione del nemico, da parte del fascismo, sappiamo molto sull'odio antibritannico e sull'antiamericanismo; sull'antisemitismo le nostre conoscenze sono a tal punto aumentate da rendere chiarissimo il quadro generale che precede e segue il 1938. Minore attenzione è stata dedicata alla slavofobia. Al pari dell'antisemitismo, la slavofobia ha radici profonde. Fra nazionalisti e irredentisti un'accesa ostilità era diffusa, se ne trova eco nelle opere maggiori di Saba e di Svevo. Avevano denunciato il pericolo di un odio razziale contro gli slavi Salvemini e un altro intellettuale che conosceva assai bene le due emergenze, quella antiebraica e quella antislava: Angelo Vivante, nel suo Irredentismo adriatico (1912).
Durante il secondo conflitto, sia nell'avanzata in territorio slavo sia, soprattutto, durante la ritirata, l'atteggiamento non sarà affatto il medesimo, come ci ostiniamo a ripetere, automaticamente sovrapponendo antisemitismo e slavofobia. Travolti dal desiderio di avvolgere il fascismo in un indistinto alone di malvagità, spesso dimentichiamo di fare le opportune distinzioni. L'Italia nel 1938 si era data una legislazione razziale, ma nelle zone finite sotto la sua occupazione, in Grecia, in Francia e Croazia, userà contro gli ebrei metodi meno repressivi di quelli adoperati nel litorale Adriatico contro gli slavi. Rispetto a questi ultimi, si osserverà il perpetuarsi di quelle azioni brutali, avviate con gli incendi e i saccheggi descritti con crudo realismo in questo libro (Pahor è un autore che afferra il lettore e non lo abbandona: per esempio, detesta l'andare a capo). Nelle stesse isole dell'Adriatico, negli stessi campi di internamento fascisti mentre gli slavi troveranno orribile morte, diplomatici e anche militari italiani sottrarranno a Necropolis ebrei di mezza Europa. Non è quindi del tutto esatto associare Pahor aLevi o a Kértesz.
Una seconda, più prosaica ragione rende indispensabile la lettura di questo libro. La testimonianza di Pahor sgorga per contrasto: l'indifferenza di quelle sempre più numerose comitive di studenti in viaggio di istruzione a Dachau è la scintilla che origina la scrittura. Il libro è fra le altre cose un atto di accusa contro il dilagante turismo scolastico. Necropoli andrebbe suggerito a insegnanti che pensano sia sufficiente salire su un aereo per portare ragazzi disinformati e distratti nei campi di sterminio. Pahor con severità ci mette in guardia contro i turisti per caso. I migliori viaggiatori di solito sono persone sedentarie, la riuscita di un viaggio dipende dalla intensità con cui si accarezza il sogno di visitare un luogo mai visto. Il viaggiatore sedentario non è mai solo. La migliore compagnia può venire dalla lettura di un libro come questo. Senza bisogno di mettersi in viaggio. Alberto Cavaglion
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