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Il libro di Ciliga, pubblicato a Parigi nel 1938 e in italiano per la prima volta nel 1951, è una delle non poche opere grazie alle quali l'opinione pubblica occidentale avrebbe potuto conoscere in tempo reale la vera natura dell'Unione Sovietica e dello stalinismo. Dell'imperdonabile ritardo con cui i dirigenti e gli intellettuali comunisti si sono staccati dall'Unione Sovietica (sempre e solo di fronte a fatti e catastrofi ormai divenuti incontestabili: prima le rivelazioni di Krusciov e l'invasione dell'Ungheria, poi quella della Cecoslovacchia e infine il crollo totale del regime), si possono dare varie spiegazioni. Massimo Caprara, in 'Paesaggi con figure', dette una spiegazione paradossale dell'ortodossia di Giorgio Amendola: "Quando il bisogno di illusione è profondo, una gran quantità di intelligenza può essere impiegata nel non capire nulla". Ma una spiegazione così brillante e umanamente indulgente non esclude che tanti altri eminenti comunisti fossero mossi da fanatismo ottuso e crudele, da animo servile e cinico o da ambizione di potere unita a una gelida insensibilità. Il libro di Ciliga non è di pura testimonianza, come quelli di altri sopravvissuti allo stalinismo, ma contiene analisi originali. Ciliga, che pure era stato un comunista convinto, arriva a rifiutare le teorie di Lenin e dice cose chiare e convincenti sui limiti della critica che Trockij faceva al regime di Stalin. Le sue conclusioni essenziali mi sembrano queste: "Il mito della Russia sovietica costituisce il più tragico malinteso dei nostri tempi"; "L'essenza del socialismo non sta né nei macchinari né negli stabilimenti, ma nei rapporti umani"; "L'esperienza ha dimostrato che non tutti i mezzi sono leciti, neanche al servizio della rivoluzione, e che a lungo andare i mezzi inconfessabili compromettono la migliore delle cause". Specialmente nella seconda parte, il libro è letterariamente avvincente e richiama alla mente le memorie di Alessandro Herzen.
Recensioni
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Quella di Ante Ciliga è stata un'esistenza lunga e intensa, scandita da passioni, illuminazioni e contraddizioni che di essa hanno fatto un irrisolto e mai estenuato "corpo a corpo" morale e politico con le vicende storiche e metaforiche del comunismo novecentesco. Nei tentativi di quest'ultimo di dipanarsi e nel successivo esiziale estenuarsi e senescere tra le strettoie delle questioni "sociale" e "nazionale" sta infatti la cifra stessa dell'itinerario umano e intellettuale di Ciliga. Nato nel 1898 in Istria, croato di nazionalità (ma il mutare dei confini gli valse negli anni più cittadinanze), abbandonò l'iniziale nazionalismo democratico antiaustriaco per il socialismo e poi per il comunismo. Attivo nell'antifascismo istriano nel dopoguerra, militante generoso in piazze, sezioni e prigioni di mezza Europa, quadro dirigente del partito comunista jugoslavo negli anni venti e poi inviato di questo al Komintern, in Urss aderì all'opposizione trockista e fu arrestato nel '30: dopo cinque anni di lotte e scioperi della fame, tra prigionia, gulag ed esilio siberiano, riuscì a farsi espellere dal paese grazie al passaporto italiano.
Stabilitosi a Parigi, nel '38 vi pubblicò per Gallimard Au pays du grand mensonge, fondamentale opera di testimonianza sul sistema sovietico, cui il nome di Ciliga restò per sempre legato e che ora viene resa disponibile in italiano e in versione integrale. Il libro con i quasi coevi scritti di Gide, Yvon, Serge e Legay fu da subito luogo di simbolico ritrovo e riconoscimento per una minoritaria e cosmopolita generazione di rivoluzionari della sinistra comunista internazionale delusi da una realtà sovietica prima vagheggiata e poi denunciata nei suoi tratti distopici: testo generazionale di pena condivisa e speranza ferita, ma anche di rinnovato anelito di giustizia e trasformazione sociale, descrizione e non prescrizione di una sconfitta epocale, denuncia del bolscevismo tutto (Lenin e Trockji inclusi) e della "menzogna" del socialismo staliniano, ma brama di nuove rivoluzioni emancipatrici. La drammaticità testimoniale dell'autobiografia carceraria-concentrazionaria conviveva cioè ancora con una tensione analitica militante forse poco organica, ma feconda per intensità intellettuale ed emotiva e tale da dare all'opera la ricchezza di piani di lettura che è dei classici.
Il volume collocava insomma Ciliga nel contesto della diaspora antistalinista, tra le fila di un maturante antiburocratismo di sinistra che nella degenerazione della rivoluzione coglieva l'emergere della burocrazia padrona incontrastata del potere e di tutti i mezzi di produzione come nuova classe dominante in un oppressivo "capitalismo di stato". Sensibile osservatore della stratigrafia sociale del regime "totalitario e bonapartista" di Stalin, Ciliga vi coglieva (al centro, in periferia, in alto, in basso) un pullulare di feroci gerarchie, di inedite stratificazioni castali e di permanenti conflitti interburocratici che individuavano un sistema dai tratti inediti: reazionario e antisocialista, ma dotato di un inquietante dinamismo che in termini di mobilitazione delle risorse e di sviluppo produttivo lo rendeva "relativamente progressista" e superabile solo con una nuova rivoluzione sociale. Si era con ciò ben al di là delle contraddizioni trockiane sull'Urss "stato operaio degenerato" da difendere "malgrado Stalin", e la rottura con Trockji (ostile alle aperture di Ciliga ai menscevichi) valse al testo le simpatie di tutti i rivoluzionari desiderosi di lasciarsi alle spalle le macerie spirituali e teoretiche del bolscevismo.
Messa all'indice dalla stampa comunista "ortodossa" e proibita dai tedeschi nella Francia occupata mentre era in corso il patto Ribbentrop-Molotov, l'opera divenne livre de chevet per le culture gauchistes postbelliche. Nel '50 l'edizione Les Îles d'Or (Au pays du mensonge déconcertant) ne propose una versione in parte compendiata dall'autore, ma integrata da un capitolo su Lenin ridotto nel '38 per pressioni editoriali. Soprattutto, però, usciva ora Sibérie, terre de l'exil et de l'industrialisation, un testo ultimato da Ciliga nel '41 come continuazione del primo, ma fino ad allora inedito: entrambi erano peraltro accorpati, come tomi contigui, sotto il titolo collettivo Dix ans derrière le rideau de fer. Nel 1951, ricalcando tale modello e formula (Dieci anni dietro il sipario di ferro), venne la prima edizione italiana a opera dell'editore Gherardo Casini, con titoli dei tomi un po' mutati (Il paese della menzogna e dell'enigma e Siberia) e con una prefazione leggermente modificata da Ciliga per il contesto di destinazione. Nel '77, dopo un tentativo editoriale dell'Union générale d'éditions (Uge) disconosciuto dall'autore, l'editore parigino Champ Libre, dalle origini libertarie e situazioniste, ripristinò il testo del '38 (con però le due versioni del capitolo su Lenin) e racchiuse in volume unico i tomi con il titolo Dix ans au pays du mensonge déconcertant, andando così a costituire la base per l'odierna edizione Jaca Book: la quale, oltre alla prefazione "italiana" del '51, annovera però anche un saggio introduttivo di Paolo Sensini (che ne è anche traduttore), una postfazione di Pier Paolo Poggio (amico e sodale di Ciliga negli anni settanta), alcune foto e un sistema di strumenti.
Le forme delle richiamate prime fortune editoriali postbelliche del libro evocanti quel "sipario di ferro" che in realtà poco aveva a che fare con luoghi e tempi dei testi del '38 e del '41 impongono peraltro un cenno ad alcune ambiguità a tutt'oggi non risolte nel percorso biografico e intellettuale di Ciliga dopo il 1941: quando cioè antititoismo e nazionalismo croato antiserbo andarono a complicarne lo slancio gauchiste fino a rendere meno nitidi i confini interconnessi del suo antibolscevismo (consentendogli, ad esempio, pur dopo nuove prigionie, di scrivere e pubblicare nella Croazia ustaa e di muoversi tra Jugoslavia e Germania con libertà sconosciuta ad altri "sovversivi"). Le citate prefazioni del '49 e del '51 mostravano del resto toni in parte difformi da quelli dei testi che accompagnavano e quasi "da guerra fredda": l'espansionismo staliniano volto all'"impero mondiale"; l'"Occidente" insidiato da "quinte colonne" e minacciato di essere "saccheggiato e colonizzato"; la Corea e i pericoli incombenti su Italia ed Europa.
Certo, il quadro non va forzato: introduzione e postfazione della presente edizione narrano di un Ciliga postbellico animatore dell'emigrazione croata in esilio (tra Parigi e Roma, dove si trasferì), scettico su una possibile "riautentificazione" del comunismo, ma sempre assertore di un socialismo umanitario e solidaristico (il sogno di una confederazione danubiano-balcanica) e pacifista: è un profilo che va rispettato, ma anche utilmente complicato, affrontando in modo più diretto fonti alla mano le ambiguità da "Giano bifronte" (come le definì Philippe Bourrinet anni orsono) del secondo Ciliga. Qui, a fronte di un classico meritoriamente riproposto, basterà in tal senso ricordare che, se è vero che storicamente la diade antistalinismo-antitotalitarismo ha nel Novecento derive multiformi e contraddittorie, non è meno vero che un autore e la propria opera non necessariamente sono destinati a perenne simbiosi. E non è detto che la cosa sia sempre un male: ci ricorda l'ineludibile storicità di entrambi.
Cristian Pecchenino
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