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Nella città del pane e dei postini - Giorgio Messori - copertina
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Descrizione


Da una stanza situata nel cuore di Tashkent, in Uzbekistan, Giorgio Messori resiste al disagio di una guerra invisibile scrivendo: del suo arrivo nella "Città del pane e dei postini", del lavoro di insegnante, dei viaggi e degli incontri nelle città uzbeke e turkmene. Primo vero esordio letterario che narra di un uomo che ha viaggiato a lungo nello spazio e nel tempo della propria memoria prima di incontrare la sua vera casa, "il grande cielo dell'Asia".
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Dettagli

2005
1 luglio 2005
240 p.
9788881032327

Voce della critica

Cinque anni fa Messori, cinquantenne reggiano, partì per insegnare italiano in Uzbekistan. Dalla sua esperienza in Asia centrale è nato il libro, diviso in tre parti. L'inizio è fatto di annotazioni giornaliere scritte nei primi mesi dopo l'arrivo, in una Taškent ancora indistinta e minacciosa. Questo periodo è segnato dall'innamoramento dell'autore per la sua futura moglie, discendente di quei russi che, fuggendo guerra e carestia, trovarono alla fine Taškent, mitica "città del pane" al di là delle steppe. La seconda parte sta fra diario e ricordo, in un'autoanalisi cui l'enigmatica città funge da immenso test di Rorschach; nella terza le prospettive si aprono in un viaggio tra le montagne e i laghi della Kirghisia.
Messori arriva in un luogo che non ha scelto, di cui non sa nulla. Si trova, come in un film di Tarkovskij, in una Zona, "uno spazio che si può popolare di fantasmi perché non presenta alcun volto riconoscibile". Sotto un regime che tiene la popolazione all'oscuro di ciò che succede a pochi isolati di distanza, tra "riforme economiche che nessuno capisce" e ordini insensatamente punitivi. Un luogo dove "stare nella pausa di qualcosa" è una sensazione comune. Anche perché abitato da generazioni di deportati, rifugiati, sradicati, pronti ora a partire di nuovo. Come i greci scappati in Urss alla fine della loro guerra civile che ogni anno festeggiano il Giorno del No, quando non si piegarono all'ultimatum di Mussolini. O le nipoti di quei tatari e coreani che Stalin spedì in blocco in Asia centrale, alle quali l'autore insegna una lingua che è anche un'ipotesi di fuga. La pausa è pure attesa di qualcosa di indefinito e minaccioso, quando la nuova paura globale arriva in Uzbekistan durante i mesi di guerra nel confinante Afghanistan.
L'autore entra in rapporto con la propria paura seguendo l'indicazione di un professore di teatro che chiede ai suoi attori di rappresentare la storia di un giovane terrorista suicida. Una conversione al disprezzo della vita che Messori collega, ancora una volta, alla condizione di straniero. Intanto le case si svuotano: i non uzbeki partono, a volte senza neanche salutare gli amici. Il vuoto, la transizione interiore è riempita dal ricordo, da "processioni di fantasmi" che portano Messori verso altri personali luoghi dell'estraneità. Come a Zurigo, dove tentava di insegnare l'italiano a figli di immigrati che si ribellavano alla nostalgia dei padri; e alla propria infanzia, perché "trovarsi tra gente che non si capisce cosa dica è privilegio di stranieri e bambini". Ma anche dei russi che, nati tra gli uzbeki, non hanno mai imparato la lingua di costoro, prima che il crollo sovietico spingesse l'infanzia dei trentenni di oggi quasi al di fuori della loro stessa biografia.
Per Messori la vera nostalgia è un sentimento irrimediabile, di lontananza che non prevede ritorno, come verso il passato. E proprio in un paese "che si è ideologicamente votato al culto dell'amnesia" l'autore va a ritroso nella memoria, come in un pellegrinaggio verso uno dei vuoti mausolei che costellano le montagne uzbeke, luoghi in cui, alla fine, "non c'è niente". Il libro ci parla, ancor più che dell'Asia centrale, di questo nostos impossibile.

Niccolò Pianciola

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