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Si sostiene, correntemente, che la revoca degli amministratori rappresenti, sic et simpliciter, atto uguale, e solo indirizzato in senso contrario, alla nomina. Ad un più ponderato esame, tale affermazione rivela tutte le proprie lacune.
Per cominciare, se la nomina dell' amministratore si protende verso il futuro dell' attività sociale, ed ha - perciò stesso - una dimensione dinamica, la revoca, causa di prematura cessazione da un incarico amministrativo che può essere a scadenza o a tempo indeterminato, evidenzia il profilo statico di un trauma.
Vi è poi un altro punto di netta divergenza fra i due istituti: la nomina - infatti - si riconnette per definizione ad un ambito endosocietario, salvo gravi patologie (si pensi alla nomina dell'amministratore giudiziario all'interno del procedimento previsto dall'art. 2409, 3° co., c.c.) che possono condurre addirittura all'accertamento dell'impossibilità di proseguire la società; una revoca - invece - non riesce quasi mai a rimanere confinata esclusivamente entro il perimetro dell'organizzazione sociale, vuoi perché a rivolgersi al giudice sono i titolari del potere di revoca, o alcuni tra di essi cui è conferita legittimazione attiva dalla legge, vuoi perché sono gli amministratori, colpiti da un provvedimento di revoca determinatosi per iniziativa di tutti o alcuni fra i soci, ad adire gli uffici giudiziari, reclamando il proprio diritto alla reintegrazione e/o al risarcimento del danno, ove la revoca sia avvenuta in assenza di giusta causa.
Proprio pensando al momento della nomina, che spesso - e soprattutto nelle società maggiormente dimensionate - rappresenta un notevole investimento in capitale umano, l'eventualità della revoca merita la più attenta riflessione, dal punto di vista degli operatori del diritto non meno che dei soggetti direttamente coinvolti, per i costi che essa involge e per la possibile ripartizione dei costi stessi tra la società revocante (e mediatamente i soci) e l'amministratore che si intende revocare.
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