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A vent’anni dalla prima pubblicazione, il libro è purtroppo ancora prezioso per comprendere “come la comparsa di stranieri in cerca di lavoro o di opportunità sociali abbia fatto sparire d’incanto diversi luoghi comuni sull’umanità, tolleranza e razionalità della nostra cultura”. Il libro usa la “funzione specchio” (Sayad) dell’immigrazione e parla di noi, e più di coloro che hanno responsabilità pubbliche: politici, intellettuali, cronisti, amministratori, il cui discorso sull’immigrazione si rivela “un impressionante coro di luoghi comuni, di dati orecchiati se non inventati, di banalità spacciate per realismo, di pregiudizi da trivio” . Tutte queste banalità e falsità, per quanto dimostrate, non smettono di essere socialmente “vere”, perché funzionali, nella loro indimostrata ovvietà, all’elaborazione di identità reattive (la nazione, la comunità, “gusci vuoti”, li chiamava Weber) da parte di chi le usa. Il clima politico degli ultimi anni è là a dimostrarcelo. Così, mentre l’emergenza immigrazione è un fenomeno sociale che si presenta come ovvio, perché socialmente costruito, “la xenofobia non è ancora oggetto di un discorso sociale legittimo”(p.59). Della criminalità dei migranti si può dire tutto (meglio se esagerato e scorretto), del razzismo non è legittimo parlare. Ma qui bisogna decidere: o si aderisce a un immaginario per cui il problema è davvero la microcriminalità, oppure si comprende che il problema, come appare sempre più chiaro, sono i fantasmi: dello straniero, del criminale, di minoranze di ogni genere. Chi lavora per i diritti di cittadinanza e per il riconoscimento di ciò che abbiamo sotto gli occhi, perché c’è e si dà con tutta evidenza, la dignità dei migranti, ci ritrova un paradosso costitutivo della propria scelta civile e della propria esistenza quotidiana, per cui sembra di vivere in un mondo rovesciato, dove il buon senso non ha cittadinanza, e la follia si manifesta nella “normalità” del senso comune.
Bellissimo. Realistico e scorrevole, ottima lettura e conoscenza del mondo in cui viviamo
Il testo si confronta con le reazioni sociali conseguenti alla prima massiccia ondata di migranti in Italia, cioè quella degli albanesi. Le reazioni della popolazione e del governo furono diverse, tese alla chiusura nei confronti del diverso, mentre i migranti, chiusi in campi di concentramento per il riconoscimento, cercavano di far disperdere le proprie tracce. L'analisi sociologica di Dal Lago, che attinge largamente alla fenomenologia della vita quotidiana, tenta di mostrare i meccanismi attraverso i quali lo sfruttamento della paura del diverso finisce per assumere una connotazione politica ed avere un peso anche a livello elettorale. Il punto di partenza è sempre quello della vittimizzazione e colpevolizzazione del diverso, meccanismo di esclusione sociale in atto da sempre con diversi stratagemmi, dall'ostracismo all'internamento, ma nella società della conoscenza tale meccanismo assume connotati cognitivi e agisce sul piano della produzione di verità a carattere sociale. Il discorso di Dal Lago cerca di superare i formalismi e i buonismi universalistici per analizzare in concreto quelli che sono i risvolti dei diritti umani. La sua indagine sospende momentaneamente la trattatistica filosofica sul concetto di persona, termine che viene riferito generalmente all'altro indiscriminato, all'essere umano per antonomasia, per sottolineare la curvatura giuridico-politica che le è essenziale e che determina le nuove esclusioni sociali, quelle tipiche della società globalizzata.
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