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recensione di Contessi, G., L'Indice 1994, n.10
Il titolo all'antica la dice già lunga e il pamphlet - ché di questo si tratta - mantiene largamente quanto il titolo promette. Il tono, però, non è quello cui l'autore, Pierluigi Nicolin, architetto e soprattutto direttore della prestigiosa rivista "Lotus", ci ha abituati. Autonominatosi 'defensor disciplinae', Nicolin, infatti, da molti anni manifesta un'impaziente coazione a smascherare ciò che gli sembra compromettere la purezza dell'architettura.
Il tono del saggio, si diceva, è invece garbato e convincente, a tratti persino malinconico, com'è giusto che sia uno scritto su quelle che, pensando ad altri titoli, potremmo definire "difficoltà politiche dell'architettura in Italia". Del resto, nel nostro paese non vi è ambito per il quale non si debbano denunciare disagi di qualche tipo. Pare dunque appropriato che, fra gli autori di riferimento, Nicolin assuma non solo studiosi come David Harvey, Richard Sennet e Marshall Berman, ma anche il Giacomo Leopardi dello "Zibaldone". Al di là degli spunti intelligenti e non banali, il nodo centrale del libro ci sembra dato dalla riflessione sull'anomalia per cui l'Italia, senza avere veramente esperito la modernità, si è disinvoltamente tuffata nella cosiddetta postmodernità, cogliendone soprattutto gli aspetti stilistici.
Pierluigi Nicolin ci parla di delusioni, fallimenti e occasioni mancate: il destino dei grandi progetti pubblici a Palermo, Milano e Roma, l'impegno di architetti molto diversi come Gregotti, Aymonino e Fiorentino, ma ci parla anche, e con giusta ironia, di un Palatrussardi monumento agli eroi del nostro tempo. Non per questo le argomentazioni di Nicolin sono scontate n‚ il suo pamphlet si fa forte di denunce prevedibili o demagogiche. La scrittura è complessa e ogni tema al centro del disappunto civile dell'autore diviene occasione per qualche acuta osservazione disciplinare. Questioni apparentemente slegate e disperse, grazie a un'indubbia capacità di inquadramento storico, si ricompongono in un disegno unitario. Funzioni e limiti di protagonisti quali Aldo Rossi e Paolo Portoghesi vengono spiegati anche alla luce di un evento come l'allestimento della "Strada Novissima" alla Biennale veneziana del 1 980, cui forse Nicolin conferisce un'importanza eccessiva.
Testo difficilmente riassumibile quello di cui discorriamo, per la molteplicità degli intrecci "narrativi" e per il costante proiettarsi del presente negli eventi degli ultimi quarant'anni. Vero è che Nicolin, ricordando i conflitti ideologici di un Paolo Volponi dibattuto fra moralità olivettiane e pasoliniane, ovvero rievocando una certa idea del neorealismo e, soprattutto, una certa idea della sinistra italiana, riesce quasi a spiegare il restauro del centro storico di Bologna secondo Pierluigi Cervellati.
Tra esilŒ interni più o meno petrarcheschi ed esilŒ cinquecenteschi tafuriani si consumano farse e tragedie nazionali (la devastazione del paesaggio, per esempio) che uno star system architettonico un po' autistico non riesce a fronteggiare. Anche perché, dai tempi di Camillo Boito e poi di Edoardo Persico, politica e università non hanno saputo creare una coscienza collettiva capace di concepire la via italiana a un'architettura moderna intesa, finalmente, come "sostanza di cose sperate".
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