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L' occupazione tedesca in Italia (1943-1945) - Lutz Klinkhammer - copertina
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L' occupazione tedesca in Italia (1943-1945)
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L' occupazione tedesca in Italia (1943-1945) - Lutz Klinkhammer - copertina
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Descrizione


Il libro di Klinkhammer vuole offrire una completa ricostruzione storica del periodo in cui l'Italia, o parte di essa, venne a trovarsi nella paradossale condizione dell'alleato occupato. La peculiarità di questa condizione determinò la forma che assunse il dominio tedesco in Italia. L'autore parla di "policrazia" che identifica la rivalità e concorrenza tra più centri di potere autonomi. Questo concetto viene qui applicato alla politica estera con risultati innovativi per quel che riguarda la conoscenza dei reali meccanismi decisionali, al di là della presunta onnipotenza del Fuhrer. L'analisi si rivolge anche alla specifica forma di potere che venne a crearsi in Italia e al ruolo affidato al governo di Mussolini nel quadro della politica di occupazione.
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Informazioni:

Libro usato, in ottime condizioni generali, pagine pulite, rilegatura ottima, abrasioni sul retro della sovraccoperta.

Dettagli

1993
XIV-682 p.
9788833907734

Voce della critica


recensione di De Luna, G., L'Indice 1994, n. 5

Alleato nemico per gli angloamericani, alleato occupato per i tedeschi, l'Italia del 1943-45 ha consentito agli storici di cimentarsi con i più svariati ossimori interpretativi, quasi a riprova di una specificità italiana non riconducibile in schemi ortodossi dal punto di vista storiografico. Sarà l'ennesima prova della nostra incapacità di "essere normali"?
Il libro di Lutz Klinkhammer tenta di aiutarci a rispondere a questo interrogativo attingendo, per la prima volta in modo sistematico ed esaustivo, alle fonti tedesche ed è in questo senso un utilissimo contributo alla conoscenza della complessa vicenda della guerra partigiana in Italia.
Sul piano della ricerca, infatti, mentre negli ambiti della storia sociale questi ultimi anni erano stati caratterizzati da uno straordinario dinamismo, tutto il "contesto tedesco" era ancora sostanzialmente fermo alle fondamentali acquisizioni di Enzo Collotti che, utilizzando gli archivi dell'amministrazione di guerra del Comando supremo dell'esercito, aveva a suo tempo sottolineato con vigore gli scopi di rapina che avevano ispirato l'intera strategia "italiana" delle forze di occupazione. Questa fase di stasi strideva non solo con i nuovi scenari interpretativi delineatisi a partire dalla complessa riflessione avviata da Claudio Pavone sul "nodo" della guerra civile, ma anche con i significativi sviluppi fatti registrare dagli studi sulle fonti angloamericane fin dalla metà degli anni settanta, quando furono resi accessibili i documenti conservati ai National Archives; l'impatto di quelle ricerche sul dibattito storiografico era stato salutare, contribuendo a sradicarlo dalle angustie celebrative o denigratorie che funestavano le mille storie locali in cui era frammentato, restituendo spessore e rilevanza internazionale alla crisi italiana 1943-45.
Con Klinkhammer, finalmente, anche il versante tedesco di questa crisi viene ora esplorato, in una direzione che coglie i suoi risultati più significativi proprio grazie alla capacità di leggerne i contorni attraverso approcci interpretativi mutuati direttamente dalla più avvertita storiografia sul nazismo. A reggerne il percorso conoscitivo è così la categoria della "policrazia" che individua nei conflitti di competenza e di potere tra i vari dirigenti del Reich il carburante che alimentava "lo straordinario motore della micidiale efficienza del nazionalsocialismo". Pur applicata fuori dal contesto della polemica con gli "intenzionalisti", e quindi senza i risvolti che da parte dei "funzionalisti" portano a ridimensionare il ruolo di Hitler, la policrazia si rivela una categoria di grande efficacia almeno per districarsi nella ridda di sigle e di enti in cui si articolò il dominio nazista nell'Italia occupata.
Sono almeno sette (se abbiamo contato bene) i centri di potere censiti da Klinkhammer, ognuno con la sua puntuale propaggine italiana. L'elenco si apre con il ministero degli esteri (che ha in Rahn il suo "braccio" operativo sul campo) e si conclude con l'organizzazione Todt (ingegnere capo Fischer): in mezzo, la Wehrmacht (generale plenipotenziario Toussaint), il ministero per gli armamenti e la produzione bellica (generale Leyers), le SS (comandante Karl Wolff), il plenipotenziario per l'impiego di manodopera Sauckel (il suo inviato è Kretzscmann), il direttore generale per l'alimentazione Harbert Backe (rappresentato da Pehle). Il loro intervento sul campo provocò tensioni, sovrapposizioni, funzioni distribuite secondo pure logiche di potere, in un quadro reso più intricato dalla contemporanea presenza della Repubblica sociale e dall'attiva iniziativa "governativa" esplicata dal Clnai. Ne risultò una linea di intervento contraddittoria, a tratti caotica, che seppe ritrovare una sua espressione sufficientemente unitaria soltanto all'interno di una prassi che tendeva semplicemente a ottimizzare lo sforzo bellico dell'alleato occupato, negli ambiti e nei ruoli definiti dalle gerarchie naziste.
Klinkhammer ricostruisce con minuzioso scrupolo le varie attribuzioni ma anche le modalità operative di ogni segmento della policrazia per poi, alla fine, delineare una sintesi interpretativa che può riassumersi in tre elementi salienti: il riconoscimento di una leadership di Rahn, gestita in stretto accordo con Wolff, soprattutto quando quest'ultimo diventò generale plenipotenziario; un'accentuazione del ruolo della Rsi come interlocutore affidabile e credibile delle autorità tedesche; una spiegazione della presenza neofascista a fianco dei nazisti sviluppata più sul versante del collaborazionismo che su quello della guerra civile. Ma proprio in relazione a questi suoi capisaldi interpretativi, si può dire che l'attenzione rigorosa posta di Klinkhammer nello scrutare le fonti tedesche ha finito per condizionare i percorsi conoscitivi, privandoli in parte del respiro più largo che avrebbero acquisito con l'ausilio di una ricognizione più puntuale del dibattito storiografico italiano.
Non sarebbe stato male, ad esempio, verificare la possibilità di un modello italiano di policrazia, approfondendo i lineamenti di una concezione della politica che Mussolini si trascin• anche nel tragico epilogo di Salò.
Di una pluralità di centri di potere nell'Italia fascista si poteva parlare innanzitutto in relazione ad alcuni assetti "esterni" alla compagine istituzionale del regime. Lungo l'arco di vent'anni di una dittatura assoluta, infatti, Mussolini non riuscì ad alterare uno schema che per le scelte più importanti, era già rigidamente fissato secondo disegni di antiche egemonie (il Vaticano, l'esercito, la stessa monarchia, i grandi interessi industriali privati) che gli preesistevano e che sarebbero durate più di lui. In questo senso, Mussolini si "adattò" al potere, lasciando affiorare una sua impronta personale soprattutto sui terreni minori della "tattica quotidiana" e dello "stile" del fascismo, nella cura insolita dedicata alle piccole cose, alle beghe locali, alle rivalità di provincia.
Per il resto adottò una pratica compromissoria che si tradusse in un costante indebolimento qualitativo del gruppo dirigente fascista, amputato progressivamente dei suoi elementi di spicco, tutti sospetti come possibili concorrenti. In questo senso, anche le rivalità che si accesero all'interno del regime, le uniche forme in cui sopravviveva una lotta politica degradata a faida intestina, furono gestite da Mussolini per alimentare una sarabanda di "cambi della guardia", avvicendamenti ai quali non corrispondeva nessun miglioramento nel reclutamento dei "quadri"; era sempre lui a decretare la sconfitta di uno dei due contendenti: prima però aspettava che si fosse esaurita ogni vivacità dialettica, così che le sue decisioni si limitavano a sancire un fatto compiuto ed erano seguite sempre dalla tempestiva giubilazione del superstite al quale non veniva mai dato il tempo di consolidare il suo momentaneo successo.
A Salò, da parte del Duce, questo modo di interpretare la gestione del potere continuò come prima; semplicemente agli elementi tra i quali esercitare la sua mediazione si aggiunse la presenza ingombrante dei tedeschi. I condizionamenti esterni e quelli interni si rivelarono altrettanto efficaci che in passato. L'intera vicenda della mancata "socializzazione" può essere agevolmente letta come la prova che comunque le velleità rivoluzionarie del neofascismo si arrestavano - come si espresse un gerarca torinese - "alle soglie dei cancelli della Fiat". Restando "prigioniero" delle proprie fonti, Klinkhammer è sempre esposto al rischio di non distinguere quanto nell'agire politico della Rsi fosse attribuibile al nuovo potere di condizionamento esercitato dall'alleato tedesco e quanto risalisse ad antiche debolezze strategiche del fascismo. Tipica, in questo senso, è l'eccessiva accentuazione del ruolo esercitato nel controllo dei giornali dagli "incaricati stampa" di Rahn, ai quali attribuisce la decisione di rimuovere la "censura preventiva"; si trattò, invece, di una vicenda prevalentemente "italiana", al cui interno finirono col prevalere le esigenze economiche dei grandi gruppi editoriali interessati non solo a garantirsi la continuità dell'attività aziendale al riparo dai furori militanti dei neofascisti, ma anche a precostituirsi le basi per un passaggio indolore dal fascismo al postfascismo (il famoso "ponte").
La stessa strategia di Rahn rischia di essere "costruita" in modo troppo lineare. Certamente Rahn era consapevole delle risorse politiche offerte dal collaborazionismo nell'ambito della guerra civile europea ("ogni norvegese, croato, francese, polacco o greco che potremo indurre a vedere in noi i rappresentanti di un futuro migliore e più giusto, innanzi tutto non sparerà contro i nostri uomini...") ed era per questo incline piuttosto alla "persuasione" che "alla violenza". Ma quanto di quella strategia appartiene a un suo disegno e quanto scaturì dalla verifica dell'impossibilità materiale di perseguire una linea di puro "terrore"? Klinkhammer spiega in modo molto convincente le varie "fasi" dell'intervento tedesco e come a ogni sua accentuazione in senso repressivo corrispondesse un allargamento del movimento partigiano; e allora, non può essere proprio in questo aspetto la chiave interpretativa per decifrare l'anomalia dell'occupazione tedesca in Italia? I nazisti si interrogarono a lungo sulla nostra "identità nazionale", .così da bloccare le deportazioni di manodopera pensando che "il lavoratore italiano poteva essere indotto a impegnare per intero la sua capacità di lavoro solo se trattato individualmente e con bontà. In lui le misure coercitive provocano ribellione, impegno solo apparente e spirito di sabotaggio"; la loro necessità di "imporre la disciplina" si alimentò di luoghi comuni e stereotipi anti-italiani ma anche della consapevolezza che oltre al solito "ribellismo endemico" occorreva affrontare un'opposizione antifascista e antinazista largamente diffusa sia per motivi economici sia per ragioni politiche. Di qui l'importanza strategica che nei loro piani di controllo poliziesco del territorio assunse la Rsi. Certamente Rahn si impegn• contro gli altri organi di occupazione per difendere la legittimità politica delle autorità italiane, ponendosi come intermediario con le istanze più brutalmente annessioniste che emergevano soprattutto negli ambienti militari; ciò nonostante resta ancora tutta da dimostrare la fisionomia compiutamente statuale della Rsi, la cui vicenda storica la rende più simile a un troncone istituzionale che a uno stato vero e proprio.
È lo stesso Klinkhammer a ricordarcelo, in quelle che sono le pagine più nuove e più interessanti del suo libro. La Rsi ebbe una sua "costituzione materiale", ma non fu certamente quella sancita dalla Carta di Verona: assetti istituzionali ed equilibri politici furono totalmente definiti nei due "ordini del Führer" del 10 settembre e del 10 ottobre 1943 così da rendere veramente difficile, oggi, vedere nel regime di Salò qualcosa di più che un semplice segmento italiano della policrazia nazista.

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Conosci l'autore

Lutz Klinkhammer

Lutz Klinkhammer ha insegnato presso alcune Università tedesche e italiane (Colonia, Magonza, Pavia, Viterbo e Bologna). È attualmente responsabile del settore di Storia contemporanea presso l’Istituto storico germanico di Roma. Tra i suoi ultimi libri, Stragi naziste in Italia 1943-44 (2006). Ha curato Dittature, opposizioni, resistenze. Italia fascista, Germania nazionalsocialista, Spagna franchista: storiografie a confronto (con Claudio Natoli e Leonardo Rapone, 2005) e La morte per la patria. La celebrazione dei caduti dal Risorgimento alla Repubblica (con Oliver Janz, 2009). Con L’occupazione tedesca in Italia. 1943-1945 ha vinto il Premio Acqui Storia (1994).

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