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Nata in Inghilterra nel 1923 da padre ebreo russo divenuto pastore e propagandista anglicano, naturalizzata americana nel 1947, autrice di una ventina di volumi di poesie e prose, scomparsa nel dicembre 1997, Denise Levertov è una poetessa che ha sempre avuto un vasto pubblico e con esso ha dialogato nelle sue raccolte, invitandolo (per citare alcuni dei suoi titoli, 1957-1992) a vivere "qui e ora", a "gustare e vedere", a guardare "con gli occhi dietro alla testa", a "liberare la polvere", "riapprendere l’alfabeto", "vivere nella foresta", accendere "candele in Babilonia", per imbarcarsi infine sul "treno della sera". Poetessa della natura orfica, delle intermittenze del sentimento femminile, negli anni sessanta-settanta sbandò in una poesia di mera perorazione politica, che comunque proseguiva una costante tendenza predicatoria, evidentemente derivatale dal padre e acuita dall’idealismo americano. La sua poesia appartiene dunque alla storia di un’epoca, quasi come un diario di donna dai rapidi e intensi innamoramenti, di rado sfiorata dall’autocritica e dall’umorismo (che non mancano in altri predicatori, Whitman o Pound). Il meglio di Levertov fu presentato in Italia in La scala di Giacobbe e altre poesie, a cura di Mary de Rachewiltz e Aldo Tagliaferri, raccolta uscita nella collana mondadoriana "Lo specchio" nel 1968 e purtroppo mai ristampata. La presente scelta minima riguarda soprattutto le poesie successive al 1980, dove Levertov continua il dialogo pubblico con se stessa, con qualche bel momento. In ultimo abitava a Seattle, una sorta di guru cristiana affacciata su un paesaggio di monti e laghi, un paesaggio come sempre moralizzato: "Che pazienza hanno una collina, una pianura, / una striscia di bosco che sta immobile, e il lento cadere della pioggia grigia..." (per citare una poesia forse inedita che mi spedì nel luglio 1997). Massimo Bacigalupo
scheda di Bacigalupo, M. L'Indice del 1999, n. 04
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