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Il viaggio di Medeot è come l'oggetto della sua poesia: liminale. Non gli interessa descrivere, almeno in quest'opera, l'approdo, il pieno viaggiare, la descrizione in dettagli di un viaggio compiuto. Quello che emerge è il confine, la linea d'ombra, lo scontro/incontro di terre, di storie, di anime e - come sempre dev'essere perché sia un viaggio significativo - della sua anima, errabonda per naturale inclinazione. Il viaggio è un mezzo per trovarsi, o almeno cercarsi, sapendo che non è mai possibile dirsi arrivati. Seguendo prima suggestioni puerili, quindi immature infatuazione d'adolescente e poi più convinte ragioni di un ragazzo dell'estrema periferia italiana, ormai fatto uomo, si attinge, pagina dopo pagina, ad attimi di viaggio che corrono verso un Oriente che è sirena, chimera, financo feticcio, sicuramente passione: per l'oltre, per l'altro, per gli orizzonti spazio-temporali che dilatano gli asfittici orizzonti del quotidiano e ci impelagano nella routine. Prima che il tedium vitae si palesi, il viaggio più che fuga è necessità di sentirsi vivi, di comprendere chi siamo, da dove veniamo ma anche e soprattutto, montalianamente "ciò che non siamo, ciò che non vogliamo" e naturalmente ciò che non sappiamo. Il linguaggio poetico si dilata, come il viaggio, in versi ampi, in volute di parole che a volte evocano scenari - possibili, reali, passati - a volte constringono il lettore a soffermarsi su singole parole, precise e tecniche, prese a prestito dalla storia, dalla geografia, dalla geologia; materie ancelle di una poesia che è simbolica non più di quanto non sia civile. Un libro che si percepisce essere stato pensato a lungo; un libro scritto molto bene, che invita a molta riflessione, ad aprire un vocabolario, a silenzi e meditazioni. Cose di cui si avrebbe grande bisogno. Un'opera che consiglio perché merita davvero.
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