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recensioni di Barenghi, M. L'Indice del 1999, n. 12
"Oggi, dovunque ci si volga, si parla ormai solo di testi, ipertesti, intertesti e metatesti, di lettori che dialogano con i testi, e di testi che dialogano con altri testi. L'autore non c'è più - o meglio, si fa come se non ci fosse. Scopo principale di questo libro è liberare la teoria da quel dogma e dall'ipocrisia che lo alimenta. L'autore non è affatto scomparso, anzi la sua funzione non è mai stata tanto forte e centrale come nella comunicazione letteraria odierna.
Alla dimostrazione di questo assunto - e all'esposizione di una nutrita serie di presupposti, implicazioni, corollari - Carla Benedetti ha dedicato il denso volume da poco apparso presso Feltrinelli. Si tratta, diciamolo subito, di un lavoro serio e meditato, frutto di anni di riflessioni e ricerche, animato da una viva passione intellettuale, che perora una causa in larga misura condivisibile. Non di meno, nel corso della lettura affiora talvolta qualche motivo di perplessità, di cui diremo fra breve.
Generalmente parlando, Carla Benedetti si colloca in una prospettiva di tipo pragmatico, per la quale un'opera letteraria non è solo, né principalmente, un atto di comunicazione. A qualificare la letteratura non è un particolare modo di significare, cioè di strutturare il messaggio, ma una particolare relazione che si crea fra l'autore e il fruitore. Componendo un'opera, l'autore non intende soltanto dire qualcosa, ma fare qualcosa: fare, appunto, un'opera d'arte. L'intenzione artistica prevale sull'intenzione semantica (sullo sfondo, più ancora che Austin e seguaci - Grice in primo luogo -, c'è qui Bateson).
L'età moderna appare poi contraddistinta da un forte investimento sulla funzione-autore, qualificato come "autorialismo". Lo statuto d'arte richiede che un determinato prodotto sia considerato come frutto di un'intenzione artistica: un'opera d'arte non può esistere se non in quanto prodotto di un autore. Per la sensibilità moderna, l'intenzione dell'autore costituisce la principale modalità di valorizzazione artistica. Infatti uno dei fenomeni caratteristici della modernità è il trionfo delle poetiche, promosse a veri e propri "organi dell'arte". Non solo il fare artistico, ma la fruizione stessa dell'opera implica una riflessione sulla letteratura: "nessun approccio ai testi è più possibile senza un riferimento alla poetica individuale, implicita o esplicita, consapevole o inconsapevole, che rende artisticamente significativa la singola operazione".
Importante è il tipo di periodizzazione adottato. L'inizio della modernità viene identificato con il Romanticismo; tra le avanguardie storiche, un ruolo discriminante spetta al Dada, che annuncia l'avvento del tardomoderno - categoria più generale e inclusiva del contraddittorio "postmoderno" - con cui si registra l'esaurirsi della (moderna) dinamica dell'arte come innovazione, trasgressione, "scarto" rispetto a una norma. Nulla di nuovo sembra più possibile: l'arte si riduce a prassi epigonale, totalmente riflessa e razionalizzata. In tale contesto, l'autorialismo degenera in una sorta di malattia cronica. L'autore si sente prigioniero non solo dell'immagine di sé che egli si è costruito, ma delle immagini che i lettori costruiscono di lui. L'euforico mito della morte dell'autore è la risposta della teoria alla paralizzante ipertrofia riflessiva dell'arte moderna. Ma è una risposta fasulla, un wishful thinking: giacché in realtà l'autore seguita a orientare i processi della fruizione. E in primo luogo, quella di consentire un'imputazione di valore artistico: "Un'opera è d'arte in quanto è d'autore".
Come si diceva all'inizio, l'orientamento complessivo del libro è interessante e condivisibile. Però - forse per effetto d'un piglio puntigliosamente pugnace, araldicamente asseverativo - il discorso di Carla Benedetti suona a volte un po' anacronistico. A trent'anni di distanza dal celebre saggio di Barthes, la tesi della morte dell'autore non sembra goder più di gran credito. Anche le critiche mosse alla semiologia, da un lato, e agli studi sulla ricezione dall'altro, hanno qualcosa di limitativo e ingeneroso: tanto più che la nostra cultura letteraria non si direbbe infestata da decostruzionisti sfrenati o vetero-strutturalisti impenitenti.
Su svariati punti, poi, le argomentazioni dell'autrice risultano persuasive nelle grandi linee, ma non ineccepibili nelle applicazioni particolari. Ad esempio, è vero che la letteratura (l'arte) contemporanea fa ricorso a tattiche di "de-autorializzazione". Ma a proposito delle cosiddette "scritture vincolate", una differenza sostanziale dovrebbe intercorrere fra le regole che limitano a priori la libertà di scelta dell'autore (e che perciò di fatto ne esaltano le doti inventive) e le regole volte a introdurre il caso nel processo creativo: altro è l'arbitrarietà del vincolo, altro la casualità del risultato. Oppure, a proposito del mutamento di status dei generi, è vero - a un certo livello di analisi - che la modernità "non consacra una soluzione tematico-espressiva, ma solo l'opera di un autore (...) nel momento in cui il genere si forma e viene riconosciuto come tale, incomincia a sapere di stereotipo". Tuttavia la sopravvivenza dei generi in varie forme potrebbe suggerire conclusioni di segno opposto: cioè che, ferma restando la supremazia ideale dell'autore, il sistema letterario non può fare a meno di un certo tasso di articolazione "generica".
Data la ricchezza del volume, molti sono i temi sui quali si vorrebbe esprimere consenso (la rivalutazione di Booth, l'analisi del linguaggio dei formalisti russi, la critica alla categoria di postmoderno) ovvero aprire una discussione (la drastica antitesi fra convenzionalismo e attribuzionismo, il confinamento del termine "estetico" all'idea settecentesca di bello). Ma già queste rapide osservazioni mostrano di quale rilievo siano i problemi storici e teorici sollevati dal libro di Carla Benedetti. Averli coagulati attorno a un asse interpretativo coerente è operazione meritoria, che le future riflessioni sulla
(tardo-)modernità letteraria non potranno certamente ignorare.
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