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Quando, nel settembre del 1922, arrivò sugli schermi parigini quello che sarebbe stato uno degli ultimi capolavori di D. W. Griffith, Orphans of the Storm (Le due orfanelle), nell'immensa sala del Gaumont-Palace si scatenò una clamorosa gazzarra: fischi laceranti, urla, proteste e, qua e là, piccoli scontri di pugilato tra sostenitori e detrattori del film. Non erano evidentemente le patetiche vicende delle due orfanelle a scatenare il malumore del pubblico, sobillato da un esagitato manipolo di militanti dell'Action Fran&çaise; era l'interpretazione proposta da Griffith della Rivoluzione francese. Un'interpretazione che, per la sua severità nei confronti degli aristocratici e della corte, era avvertita come offensiva dai nostalgici dell'ancien régime, ma che risultava al tempo stesso sgradita anche ai cultori delle sacre memorie repubblicane, per l'immagine truce e grandguignolesca che offriva dei sanculotti e dei tribunali rivoluzionari. Meno epocale della battaglia di Hernani, la battaglia intorno alle Due orfanelle si concluse con una notte in guardina per i manifestanti più scalmanati e con il taglio di alcune scene del film. Mi pare però che, nonostante questo bilancio irrisorio, meriti di non essere dimenticata, perché costituisce un esempio particolarmente efficace dell'incredibile capacità della scena rivoluzionaria di riaccendere, anche a distanza di tempo, passioni e conflitti; di riaffermarsi come un nodo irrisolto, e forse irrisolvibile, di visioni, testimonianze e giudizi drammaticamente contraddittori.
Credo che Sergio Luzzatto non abbia mai avuto occasione di parlarne; eppure è difficile trovare un aneddoto che illustri con altrettanta perfezione alcuni dei temi che più gli stanno a cuore, come l'ambiguo carattere dell'eredità del terrore e dei suoi simboli e il lievito di attualizzazione che ogni rievocazione di un passato scottante porta inevitabilmente con sé. Non a caso, per complicare ulteriormente le cose, Griffith, nelle didascalie iniziali della sua opera, metteva in guardia gli spettatori contro il "bolscevismo" di Robespierre; cosa che non impediva affatto ai suoi oppositori più accaniti di bollare proprio come "bolscevizzante" il suo tragico quadro delle plebi affamate alla vigilia del 1789. Anche a distanza di più di cent'anni, evidentemente, era impossibile metter mano alle ceneri della memoria rivoluzionaria senza scottarsi.
Con questa stupefacente vitalità della rivoluzione francese nella memoria collettiva Luzzatto si è già confrontato in due libri eccellenti: Il terrore ricordato. Memoria e tradizione dell'esperienza rivoluzionaria (Marietti, 1988; nuova edizione ampliata Einaudi, 2000) e La Marsigliese stonata. La sinistra francese e il problema storico della guerra giusta (1848-1948) (Dedalo, 1992). A entrambi si riallaccia Ombre rosse, che passa in rassegna una serie di diversi approcci ottocenteschi al lascito rivoluzionario, cogliendone molti tratti d'implicita e spesso trascurata problematicità.
Il legame con i due volumi precedenti emerge in modo particolarmente chiaro nel saggio di apertura, Visioni europee della Rivoluzione francese, che esplora la "vita d'oltretomba" dell'età rivoluzionaria dal 1815 al 1870. Il terrore ricordato, focalizzato sulle grandi figure dei Conventionnels sopravvissuti al Terrore ed espulsi come regicidi dalla Francia della Restaurazione, aveva il suo centro nella loro memorialistica di protagonisti, a volte orgogliosamente impenitenti, a volte torturati da laceranti fantasie espiatorie; La Marsigliese stonata raccontava invece, attraverso il tema della "guerra patriottica", in tutte le sue contraddittorie declinazioni ideologiche, la fortuna d'immagini e motivi rivoluzionari soprattutto nella Francia degli ultimi trent'anni dell' Ottocento e della prima metà del Novecento. È il periodo in cui, esauritisi i testimoni oculari, la storia del decennio ottantanove-novantanove passa nelle mani degli specialisti universitari, fermamente intenzionati a sottrarla alle deformazioni soggettive della memoria individuale e a ricostruirla sulla base del maggior numero possibile di documenti affidabili. Ma tra la memorialistica dei sopravvissuti e la storiografia "scientifica" degli Aulard e dei Mathiez, il ricordo della rivoluzione conosce forse le sue più decisive avventure storiografiche e interpretative: da Buchez a Carlyle, da Thiers e Mignet a Proudhon, da Michelet a Taine. Sono proprio queste avventure che Luzzatto ripercorre nel primo saggio di Ombre rosse, individuando lungo l'arco del diciannovesimo secolo cinque prospettive ermeneutiche ben distinte, anche se spesso fortemente interdipendenti.
Il primato cronologico spetta alla prospettiva eroica; è l'ottica in cui vedono la grande rivoluzione soprattutto poeti e romanzieri degli anni venti e, nella Francia della Restaurazione, moltissimi oppositori, il cui patrimonio ideale è improntato a una "peculiare miscela di reminiscenze giacobine e imperiali". Con la monarchia di luglio, subentra alla prospettiva eroica quella organica, lettura "innocentista" del Terrore che libera le classi medie di ogni complesso di colpa relativo alle origini rivoluzionarie del loro potere e le rende "sovranamente fiduciose nello sviluppo naturale della società borghese". In parallelo sorge e si sviluppa l'interpretazione messianica, di matrice saint-simoniana, versione ecumenica e religiosa del decennio rivoluzionario in cui si confondono slanci profetici e aneliti democratici, sotto l'ambigua insegna di un Cristo sanculotto. Per uno dei molti rivolgimenti paradossali a cui è esposto l'uso ideologico della memoria storica, proprio questa interpretazione messianica, così misticamente eversiva, preparerà il terreno a Napoleone terzo, che si presenterà aureolato di un ambiguo provvidenzialismo legato al felice esito bonapartista delle vicende rivoluzionarie. La seconda metà del secolo vedrà il rovesciarsi della prospettiva messianica nel suo contrario, una smagata prospettiva critica, addirittura patologica per lo sguardo di Taine e di Lombroso; impossibile ignorare, dopo il 1848, "che ogni 1789 è seguito da un 1793, e ogni 1793 da un 1799". All'era degli eroi, dei testimoni e dei profeti succede così l'era disincantata dei collezionisti e dei professori che, diffidenti nei confronti di miti, leggende e agiografia, domandano ai più modesti cimeli (ceramiche con gli emblemi della prima repubblica, autografi, caricature) la storia non soltanto delle idee, ma del "corpo" della rivoluzione. Si annuncia e si prepara la stagione della storia culturale e materiale, di cui Luzzatto studia in pagine appassionanti un oscuro precursore, Augustin Challamel, autore di una poco conosciuta, ma ricca d'insegnamenti, Histoire-Musée de la République.
Accanto al dimenticato Challamel spiccano, tra le "ombre rosse" evocate da Luzzatto, due tra i maggiori romanzieri dell'Ottocento, Balzac e Hugo, testimoni d'eccezione della presenza costante, ma mai pacifica né lineare, della memoria rivoluzionaria nella letteratura del diciannovesimo secolo. Il Balzac non ancora celebre del 1830 si confronta con uno degli aspetti più perturbanti di tale memoria scrivendo, in collaborazione con un amico, un'apocrifa autobiografia del boia di Parigi al tempo del Terrore: nascono così i Mémoires di Sanson (recentemente tradotti per gli "Oscar" Mondadori da Paola Décina Lombardi e Francesca Spinelli). In quest'opera minore, la figura storica di Sanson finisce per incarnare la necessità dell'espiazione; proprio tale necessità connota il testo in senso reazionario, sminuendo la portata delle molte considerazioni filantropiche di cui è costellato. Ma Balzac non si arresta alla figura d'ancien régime del boia; sollecitato dal personaggio di Vidocq, elabora e introduce nella Comédie humaine una figura ben più moderna, quella del ribelle (Vautrin) trasformato in poliziotto, "subdola incarnazione - commenta Luzzatto - di una forma nuova di sovranità, che muove dal basso anziché dall'alto, ma che si annuncia almeno altrettanto dispotica". Se il motivo filantropico è caduco nell'opera di Balzac, ben altro è il suo peso in quella di Hugo: giustamente Luzzatto gli restituisce la centralità che una critica troppo sospettosa nei confronti di ogni inflessione umanitaria e sentimentale gli ha in altri tempi negato. Dai Miserabili a Novantatré, Hugo "si misura in profondità con il problema metafisico e storico del dolore del mondo", arrivando faticosamente a distinguere e a contrapporre "i malanni della politica e i rimedi dell'umanità": la riflessione sulla grande rivoluzione, nell'ambito del secolo diciannovesimo, non poteva forse pervenire a esiti più alti.
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