Quando firma la prima recensione di una mostra d'arte, Sergio Solmi ha poco più di vent'anni; da tempo ha definito una prioritaria vocazione poetica che è a sua volta destinata a ritagliarsi uno spazio di vita (la sera, quando anche le voci domestiche tacciono) tra gli obblighi imposti da un impiego in banca. La pittura si delinea come un'esperienza liminare da coltivare attraverso amicizie personali (prima a Torino, poi a Milano), mostre da vedere e libri da leggere, più per alimentare il proprio mondo interiore e confortare convinzioni estetiche già consolidate che non per inseguire un vano aggiornamento su mode culturali estemporanee. Provocati da occasioni diverse (sono recensioni a mostre e libri d'arte, presentazioni di artisti presso gallerie private, medaglioni monografici per edizioni di pregio), gli scritti d'arte di Solmi, ora raccolti nel sesto e ultimo volume dell'opera integrale dello scrittore curata con dedizione affettuosa da Giovanni Pacchiano, continuano infatti a circuitare attorno ad alcuni nomi subito avvistati e mai traditi. Carrà, Morandi potrebbero già bastare a rivelare un sicuro registro di valori pittorici e di impliciti valori morali da preservare contro il forzato ottimismo della cultura fascista prima, e contro le palingenesi politiche e sociali gridate dopo la guerra e oltre: ecco, invece, "la faticata austerità, il lirico broncio" di un pittore esperto come Carrà, certi suoi dipinti covati "nella visione e nella memoria", le inquietudini che insidiano e trattengono lo sfogo aperto del pennello; e la necessaria solitudine di Morandi, una modernità conquistata a forza di isolamento, la resistenza di quella pittura a ogni tentativo di classificazione. L'autonomia dell'arte è un valore crociano e può servire nel ventennio "a rendere meno grave la rinuncia alla tentazione dei discorsi generali (
) lasciandoci, tutt'al più, il gusto dei sottintesi", come Solmi riconosce in Trent'anni di vita milanese (ora nel volume Poesie, meditazioni e ricordi, Adelphi, 1983-84): eppure preme in quegli anni "un bisogno di avventura, per lo meno interiore, in opposizione alla pacata, obbiettivante misura estetica nata dal crocianesimo". Ma in quella misura di pudore, che è anche un tratto caratteriale di Solmi, il tono della voce può talvolta alzarsi e il discorso sull'arte coinvolgere, per vie impreviste, ragionamenti più gravi; così nel 1930: "La pittura di Modigliani, col semplice fatto della sua esistenza, basta a lasciarci intravvedere per contrasto il vuoto di tante odierne teoriche, di tanti improvvisi ritorni all'antico, offrendo a questo nostro tempo dispregiatore dell'individualità, e in cui l'arte cerca vanamente la propria salvezza in formule estrinseche e collettive, come sono la 'classicità', la 'costruzione' o la 'sana tradizione', dall'alto delle quali dovrebbe piovere come un crisma il dono della genialità sugli artisti che se ne impossessano, un ben singolare insegnamento"; per concludere: "Questa è la lezione di Modigliani, ma non so quanti siano oggi, e non solo in Italia, gli artisti in grado di intenderla". Per la dimensione soggettiva che li caratterizza, è opportuno l'ordinamento dei testi in volume secondo accostamenti tematici indifferenti alla cronologia; ne viene rafforzata l'impressione di un discorso essenzialmente autobiografico condotto da un critico non professionista (per sua stessa definizione), quasi un dilettante d'altri tempi. Lineamenti teorici per uno studio sulla pittura contemporanea del 1945 non sembra aiutare, in apertura, la conoscenza dell'autore; le pagine più fascinose nascono infatti dall'incontro diretto con gli artisti, quando la percezione di Solmi si confronta con una concreta verità di esistenza: nelle visite a Casorati, a Tosi, a Guidi, dipinti e luoghi si riverberano gli uni negli altri mettendo in moto, attraverso la scrittura, la giostra dei pensieri e dei ricordi. Questi scritti così penetrati dal vissuto solmiano potrebbero vivere senza un commento dedicato al loro specifico contenuto: per goderne, basterebbe lasciarsi accarezzare dalla musicalità del dettato. Ma nel momento in cui si decide di introdurre un apparato critico se ne dovrebbero definire scopo e possibili destinatari. Non penso che il pubblico elitario dell'editore Adelphi necessiti di stampelle biografiche per gli artisti più noti o di formule manualistiche retrive (Ingres maestro del neoclassicismo, ad esempio) per comprendere il significato dei vari testi; né che possa tollerare nelle note, se l'edizione ha qualche ambizione scientifica, le datazioni sbagliate dei dipinti (Il gentiluomo briaco di Carrà assegnato al 1926, la Donna al balcone al 1912), l'omissione di alcune precisazioni (un paio di casi: Solmi data il Cactus di Morandi al 1920, ma la tela è del 1919; nel 1946 Casorati gli avrebbe confidato il rifacimento del dipinto Lo studio, perso nel 1931, ma la replica era nota da tempo) e soprattutto la mancata contestualizzazione dei singoli interventi nella cultura critica coeva: un'operazione necessaria per far vivere gli scritti in una dimensione diversa da quella personale e che torni utile agli studi storico-artistici, per compensare l'andirivieni cronologico che l'accorpamento tematico inevitabilmente produce. Non si tratta di marcare un territorio disciplinare per difenderlo dai non addetti ai lavori, ma la curatela del volume avrebbe prodotto risultati più cogenti se affidata a chi per assiduità di studi è pronto a confrontarsi con la complessità di un tessuto artistico fittissimo come quello italiano del Novecento. Ne dà prova un affondo di Antonello Negri che nella postfazione rileva a titolo esemplificativo la strana equiparazione, nella bilancia del giovane Solmi, tra Carrà, de Chirico e il meno noto Boris Grigorieff in una pagina del 1926: "La qual cosa induce a pensare che quando si voglia fondatamente studiare una stagione artistica si debbano indossare gli occhiali di chi allora osservava, giudicava e sceglieva". Così, il caso Modigliani che si apre nel 1930 è un terreno sul quale si scontrano molte ambizioni e rivalità, con reciproche accuse di esterofilia, di ignoranza e di interessi commerciali tra Venturi, Marinetti e Ojetti: da parte di Solmi, difendere la moralità di un pittore cresciuto nella meticcia avanguardia parigina non è una scelta banale e tale aspetto non può essere taciuto. Neppure l'affezione per la pittura carraiana (per restare ai nomi già citati) appare scontata ed è infatti condivisa negli anni trenta dagli intellettuali più inquieti, i quali scorgono in essa valori e tensioni che una lunga pigra consuetudine visiva ha ormai attutito. Gli scritti d'arte di Solmi hanno inoltre pesi diversi. Per i pittori più amati, sembrano nascere da un processo di sedimentazione e accumulo continuo, come rivela la ripetizione di alcune clausole interpretative nell'infilata dei saggi su Carrà; ma talvolta rispondono a occasioni fortuite e vedono rifluire, un po' svilite, le cadenze degli scritti maggiori: appaiono così "a lungo covati nella visione e nella memoria" persino i quadri di Anna Nascimbeni Tallone nell'"Illustrazione italiana" del Natale 1946. Anche su queste differenti destinazioni dei testi bisognerebbe ragionare per valutare in quali modi si costituisca la collaborazione di Solmi a una rivista o a un progetto editoriale, e quanta convinzione sostenga i singoli interventi in funzione della loro collocazione editoriale (qualche scoria è inevitabile). Federica Rovati
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